Cambiamo il mondo a tavola: il Goal 2 per un’alimentazione sostenibile

In occasione di Parma 2020 – Capitale Italiana della Cultura, Fondazione Barilla presenta la mostra esperienziale “Noi, il cibo, il nostro Pianeta: alimentiamo un futuro sostenibile” per promuovere da gennaio ad aprile 2020 un senso di cittadinanza attiva e una crescente consapevolezza sull’importanza di uno sviluppo sostenibile che può essere raggiunto cambiando il modo con cui coltiviamo, produciamo e consumiamo il cibo.

Scopo di questa iniziativa è promuovere la conoscenza e le buone pratiche su cibo, persone e ambiente, per il futuro del Pianeta e per la salute dei suoi abitanti, attraverso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti dalle Nazioni Unite e alla base dell’Agenda 2030, in particolare dell’Obiettivo 2 “porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile entro il 2030”.

La denutrizione e l’obesità sono, infatti, sempre più connesse tra loro, a causa dei cambiamenti nei sistemi alimentari. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), oltre un terzo dei Paesi a basso e medio reddito presenta forme sovrapposte di malnutrizione, in particolare nell’Africa sub-sahariana, nell’Asia meridionale e nell’Asia orientale e nel Pacifico.

I dati indicano che quasi 2,3 miliardi di bambini e adulti sono in sovrappeso. Bisogna anche riflettere sul fatto che, al giorno d’oggi, i bambini denutriti sono 150 milioni. La denutrizione e l’obesità possono avere delle conseguenze per più generazioni. Entrambe le condizioni, se riscontrate nelle madri, sono associate a problemi di salute nei bambini. L’Oms fa la lista degli elementi necessari per un’alimentazione sana: una varietà e abbondanza di frutta e verdura, cereali integrali, fibre, noci e semi; modeste quantità di alimenti di origine animale; quantità minime di carni lavorate nonché di cibi e bevande ad alto contenuto energetico. Mangiare cibi malsani aumenta il rischio di malattie non trasmissibili, come il diabete, ipertensione, ictus e malattie cardiovascolari.

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Responsabilità editoriale e i contenuti dell’articolo sono a cura dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

Al via la fase sperimentale di un vaccino contro la malaria

La malaria è la seconda malattia infettiva più diffusa e pericolosa al mondo, seconda solo alla tubercolosi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2018 l’infezione, trasmessa dalle punture di zanzara endemiche nelle aree tropicali e subtropicali e a un’altitudine inferiore ai 1800 m, ha contagiato quasi 3 milioni di persone, uccidendone circa quattrocentomila. L’infezione può colpire tutti, ma sono i bambini i soggetti più vulnerabili in questi paesi: pensate che si tratta della prima causa di decesso per i bambini sotto i 5 anni in Kenya e in altri paesi africani.

Una buona notizia però esiste! A partire dallo scorso anno, e in particolare negli ultimi mesi, è partita finalmente una campagna sperimentale di vaccinazioni, coordinata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per i bambini in Ghana, Kenya e Malawi. Si tratta di un vaccino sperimentale, sviluppato dopo oltre trent’anni di ricerca e approvato dal 2015, che se da una parte non risolve il grave problema sanitario, dall’altra regala una speranza grazie a un tasso di successo di circa il 40%. Si tratta del primo farmaco in grado di aumentare sensibilmente le possibilità di sopravvivere all’infezione, anche più dei medicinali salva-vita. 

Per il momento la campagna di vaccinazione coinvolge i bambini tra i 6 e i 9 mesi in alcuni distretti dei tre paesi, e prevede che, solo in Kenya, vedrà coinvolti circa 120mila bambini ogni anno. Secondo quanto emerso dalle sperimentazioni, il farmaco ha dimostrato di essere efficace su 4 bambini su 10 nell’arco di 4 anni.

Certo, non si può affermare che il vaccino da solo possa essere in grado di risolvere il problema, anche a causa della sua efficacia parziale (comunque la più alta fin’ora), ma se confermerà la propria capacità di impedire ai piccoli di ammalarsi rappresenterà una svolta nella storia della lotta a questa diffusissima malattia.

La Malesia è il primo paese asiatico per dispersione di plastica negli oceani

Una recentissima ricerca del WWF ha rilevato che la Malesia è il primo paese in Asia per consumo di imballaggi di plastica. Tenendo conto che l’Asia è responsabile di oltre la metà dei rifiuti plastici dispersi negli oceani, ne esce un quadro preoccupante. Lo studio ha preso in considerazione i 5 paesi asiatici – Cina, Thailandia, Malesia, Filippine, Indonesia e Vietnam – che insieme sono responsabili di oltre il 60% dei rifiuti plastici dispersi in tutto il mondo, e la Malesia è risultata la prima con più di 16 kg di imballaggi plastici a testa consumati ogni anno.

 Una spiegazione è da individuare nel fatto che la Malesia ha il reddito pro-capite più alto di tutto il gruppo selezionato, e di conseguenza i maggiori consumi per persona, e anche nel fatto che le politiche di smaltimento dei rifiuti non hanno seguito lo stesso sviluppo in Malesia rispetto a paesi come la Cina o la Thailandia dove si raccoglie quasi il 50% dei rifiuti generali contro il 15% di Kuala Lumpur (la capitale della Malesia) e delle Filippine.

Vi è però un altro dato da tenere in considerazione. Una grossa parte di questi rifiuti (in gran parte plastica non riciclabile) sono in realtà importati dall’Europa, Nord America e Asia Orientale, soprattutto a seguito del veto della Cina che ha smesso di importarne nel 2018. 

All’inizio del 2019 l’UE ha esportato 150mila tonnellate di rifiuti plastici ogni mese, e anche il consumo pro-capite si attesta su livelli più alti della media asiatica (circa 31 kg per ogni persona) ma ne ricicla circa il 40% disperdendone nell’ambiente il 4%, contro il 93% dei paesi meno industrializzati.

Dieci anni per agire! Attuiamo insieme l’Agenda 2030

Il 2020 è un anno molto importante per l’Agenda 2030. Infatti, sono passati cinque anni dalla sua firma da parte dei 193 Paesi delle Nazioni Unite (settembre 2015), nonché dall’adozione dell’Accordo di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico (dicembre) e dalla pubblicazione dell’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco (maggio), che in tutto il mondo è diventata il punto di riferimento per un’etica condivisa per lo sviluppo umano e la salvaguardia della nostra terra.

Il 2020 rappresenta, inoltre, l’inizio del “decennio di azione per il conseguimento degli SDGs” lanciato nel corso dell’Assemblea Generale del’Onu del settembre 2019.

Le Nazioni unite, a inizio anno, hanno avviato la “Decade of action”, programma che prevede soluzioni per tutte le maggiori sfide richieste dai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu (Sustainable Development Goals – SDGs nel loro acronimo inglese), che vanno dalla povertà alle questioni di genere, al cambiamento climatico e alle disuguaglianze.

Il piano prevede diversi campi di realizzazione: soluzioni per lo sfruttamento efficiente delle risorse in tutto il mondo; azioni dei singoli Stati per stimolare politiche sostenibili; impegno individuale da parte della società civile (in particolare giovani, media e settore privato).

Nella campagna della Decade of action si sottolinea la necessità di conseguire risultati concreti e immediati per i più bisognosi, come: migliorare tecnologia delle batterie a energia rinnovabile; destinare finanziamenti per i Paesi che rischiano seri danni a causa dei cambiamenti climatici; togliere gli aiuti finanziari ai combustibili fossili (come carbone e petrolio); far capire il bisogno di estendere a tutto il mondo un’alimentazione che rispetti gli SDGs, che sia quindi sostenibile dal punto di vista ambientale e che sia accessibile a tutti.

La campagna porterà a un nuovo evento annuale, “SDG moment”, che si terrà durante l’High-level political forum (Hlpf) dell’Assemblea generale Onu e dovrebbe favorire la condivisione di modelli di sviluppo sostenibili, evidenziando le aree di miglioramento per i singoli Paesi e i mezzi per soddisfare gli SDGs.

Il primo “SDG moment” avrà luogo nel settembre 2020, che celebrerà anche il 75esimo anniversario delle Nazioni unite.

Responsabilità editoriale e i contenuti dell’articolo sono a cura dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

Le disuguaglianze globali spiegate ai bambini (da cui dovremmo imparare come risolverle!)

Avete mai provato a immaginare un modo semplice per spiegare le disuguaglianze globali? Facciamo un esempio. All’ora di pranzo tutta la scuola si precipita in mensa con una grande fame e una volta seduti, tutti i compagni di classe (sono 100!) aspettano trepidanti che venga servito il pranzo. I piatti saranno uguali per tutti, verrebbe da pensare e invece…il primo bambino o bambina che entra in mensa riceve un grande vassoio con tantissimo cibo, tutto per lui! Wow, pensano i bambini e le bambine mentre aspettano di essere serviti. Finalmente viene portato in tavola un nuovo, grande vassoio, e il secondo ha già l’acquolina. Peccato che quel vassoio, uguale a quello di prima, questa volta dovrà essere diviso tra 70 bambini e bambine! E forse non tutti riusciranno a mangiare…

Questo è solo un esempio, ma è proprio quello che ci descrive la suddivisione della ricchezza nel mondo. Secondo una recente pubblicazione di Oxfam, alla vigilia del vertice di Davos, ci sono 2513 persone che possiedono la stessa ricchezza di 4,6 miliardi di persone messe insieme! 

Un altro dato che fa riflettere riguarda l’Italia. Infatti nel nostro paese, negli ultimi anni, la ricchezza dei più facoltosi è cresciuta del 7,6%, mentre quella del 50% dei poveri è addirittura diminuita del 36,6%! In pratica, questo dato ci racconta come nonostante la ricchezza venga effettivamente prodotto nel paese, questa non è redistribuita in maniera equa. Anzi, una distribuzione che vede chi ha di più ricevere ancora di più, mentre chi ha meno vede diminuire anche quel poco che ha.

Questo è solo uno dei tanti dati che raccontano le disuguaglianze globali: se vogliamo davvero raggiungere gli obiettivi posti entro il 2030, c’è ancora molto da lavorare.

Guarda come questi bambini risolvono la disuguaglianza!

Aria inquinata: i rischi e le conseguenze per la salute

Una ricerca pubblicata dalla rivista scientifica The Lancet restituisce un quadro di quello che sarà l’impatto sui rischi per la salute dei paesi in cui il cambiamento climatico ha gli effetti più importanti. In primo luogo il rapporto mette in chiaro come i numeri ci mostrino che su molti temi chiave il nostro pianeta, o meglio i paesi che compongono il nostro pianeta, non hanno molto cambiato le proprie abitudini rispetto a prima: ad esempio il consumo di carbonio (legato ai processi di combustione delle risorse fossili) è rimasto praticamente invariato dal 1990 ad oggi (ovvero siamo agli stessi livelli di 30 anni fa!), o che il consumo di carbone è addirittura tornato ad aumentare dal 2016.

Come sappiamo l’utilizzo massiccio di risorse combustibili implica alti tassi di inquinamento, che oltre a essere dannosi per il pianeta lo sono in primo luogo per noi essere umani. Quando l’aria è inquinata si danneggiano i polmoni, il cuore e tutti gli altri organi. Vivere in ambienti inquinati è particolarmente dannoso per i soggetti più deboli, come i bambini, ma a lungo andare l’accumulo di residui inquinanti si ripercuote sulla salute degli adulti: si stima che siano 7 milioni i decessi dovuti ogni anno all’inquinamento atmosferico.

Un dato allarmante, che riguarda anche l’Italia. L’inquinamento dell’aria (e su questo tema l’italia non si posiziona affatto bene: pensate che la pianura padana è l’area più inquinata d’Europa!) anche nel nostro paese miete vittime: si stima che nel 2016 siano morte oltre 45mila persone a causa di una costante sovraesposizione a livelli di particolato (ovvero le cosiddette particelle PM 2.5, per le quali a volte viene fermato il traffico nelle grandi città come Milano o Roma). É il valore più alto in Europa, e l’undicesimo nel mondo.

Certo, alcuni passi avanti sono stati fatti anche a livello europeo per mettere un freno a questo grave problema ambientale, sanitario ed economico (ad esempio guarda la news del 23 gennaio 2020) ma siamo solo all’inizio: gli esperti dicono che un bambino nato oggi, se tutto va secondo i piani, avrà 30 anni prima di vedere raggiunto il traguardo “emissioni zero”, nel 2050… speriamo bene!

Guarda questo video che racconta gli effetti devastanti dell’inquinamento sulla Pianura Padana

Cibo e Agricoltura: come procede il percorso verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile?

Non benissimo, purtroppo. É quanto emerge da un recente rapporto stilato dalla FAO, l’agenzia ONU di stanza a Roma, riferendosi nello specifico ai 4 obiettivi che costituiscono il cuore del suo mandato, ovvero “zero fame” (2), “acqua pulita” (4), “vita sottomarina” (14) e “vita sulla terra” (15). Come si diceva, lo studio riporta con preoccupazione i progressi fatti fino a questo momento per cercare di raggiungere gli obiettivi preposti per il 2030. Per quanto riguarda lobiettivo 2, per esempio, l’analisi degli indicatori ci dice che su 9 indicatori, 7 restituiscono un risultato non in linea con le aspettative e le previsioni. Per dare delle cifre, il numero di persone denutrite negli ultimi tre anni è addirittura aumentato, arrivando nel 2018 a 820 milioni. Se invece parliamo di “insicurezza alimentare” (ovvero, le persone hanno da mangiare ma la dieta non è sufficientemente varia o nutriente) parliamo di circa 2 miliardi di persone. Altri indicatori non positivi riguardano l’ammontare di investimenti per il settore agricolo: l’aumento di risorse auspicato non è osservato dalla FAO, che anzi sottolinea come dal 2001 sia sistematicamente diminuito.

Infine, per ciò che riguarda l’obiettivo 15, il rapporto mette in luce lo stato della copertura forestale. Dal 2000 al 2015 il pianeta ha perso una superficie forestale pari a quella del Madagascar (che è grandi quasi due volte l’Italia!), concentrata quasi tutta nei tropici – in Asia, Africa e Sud America – per via della deforestazione e riconversione agricola dei terreni. Fortunatamente, la superficie delle aree forestali gestite in maniera sostenibile cresce, e in generale il tasso di deforestazione è in diminuzione grazie anche all’aumento delle aree boschive in Europa e Nord America.

In definitiva la FAO fa una serie di raccomandazioni per migliorare le prestazioni nei settori presi in considerazione. Maggiori investimenti nel settore agricolo (che comprende anche la pesca e la coltura di alberi) e più in generale politiche a supporto della crescita della produttività in questo settore così delicato e allo stesso tempo diffuso e fondamentale.

La Violenza di Genere sul lavoro – Speciale Bangladesh

Un recente studio commissionato da ActionAid Bangladesh ha messo in luce, dati alla mano, le dimensioni preoccupanti della violenza di genere nei posti di lavoro in Bangladesh. Se da un lato tra il 1996 e il 2017 il tasso di occupazione femminile nel paese è più che raddoppiato, passando dal 15,8% al 36,3%, portando indubbi benefici alla crescita dell’economia e, soprattutto, dello sviluppo umano, da un altro punto di vista l’aumento della partecipazione della forza lavoro femminile ha portato alla luce il preoccupante fenomeno della violenza di genere al lavoro. Una violazione che mina i diritti umani, la dignità e la salute delle donne. 

Secondo lo studio di SHOJAK coalition, un insieme di organizzazioni che si batte contro la violenza di genere, il 22% delle lavoratrici in Bangladesh subisce molestie e violenze fisiche, psicologiche e sessuali, e nella maggior parte dei casi (67%) non si rivolge ai comitati di controllo dei posti di lavoro perché non si fidano o hanno paura di non essere credute.

In generale la violenza di genere nel luogo di lavoro rimane una delle violazioni di diritti umani più diffuse nel mondo: si stima che in tutto il mondo circa il 35% delle donne sopra i 15 anni hanno subito una qualche forma di violenza o molestia fisica o sessuale a casa, nella loro comunità o a lavoro. Parliamo globalmente di circa 820 milioni di persone. Purtroppo non esiste ancora una legge a livello internazionale che imponga degli standard a cui adeguare le normative nazionali.

Anche in Bangladesh la normativa nazionale sul tema non si dimostra all’altezza del problema: nonostante previsioni sulla violenza di genere siano contenute in diversi atti normativi, la disciplina è molto generica e non fa alcun riferimento al problema specifico delle violazioni all’interno dei luoghi di lavoro o delle scuole. L’unico riferimento esistente, delle linee guida emanate dalla Corte Suprema, risultano ampiamente ignorate e inapplicate.

Per questi motivi, in continuità con la strategia di ActionAid International che ha scelto di concentrare le proprie campagne dei prossimi tre anni sull’ambito “Women’s Labour, Decent Work and Public Service”, ActionAid Bangladesh si focalizzerà sul tema dei luoghi di lavoro sicuri per le donne con l’obiettivo di promuovere la giustizia socio-economica per le donne.

Guarda questo video di ActionAid Bangladesh che fa parte della campagna su “condizioni e luoghi di lavoro sicuri per le donne”

La saggezza indigena che potrebbe salvare il pianeta

Nel discorso globale sul sovrasfruttamento delle risorse e della terra in corso negli ultimi decenni c’è un interlocutore che troppo spesso è stato lasciato da parte, nonostante custodisca una saggezza millenaria. Si tratta dei quasi 400 milioni di indigeni che vivono, sparsi per i 5 continenti, in tutto il mondo. Lontani dalla tecnologia e dal “progresso” scientifico, che in molti casi ha portato un impatto negativo impressionante sulla natura, le comu6nità indigene sono depositarie di immensa conoscenza quando si tratta di vivere in simbiosi con la natura. La capacità di sfruttare le risorse naturali senza inaridirle, lasciando intatti gli equilibri fondamentali per la riproduzione e la prolificazione degli ecosistemi, è un patrimonio che dovremmo cominciare a considerare se vogliamo garantire un futuro al pianeta. 

Per esempio, sapete che alle Hawaii – un’arcipelago che sta nel bel mezzo del Pacifico – il 63% del pesce è importato? Anche se incredibile, decenni di inquinamento marino, di sovrasfruttamento della pesca e il degradamento della barriera corallina hanno fatto sì che la pescosità delle acqua sia sensibilmente diminuita.

Per risolvere il problema, molti hawaiani hanno fatto ricorso alla saggezza popolare, riprendendo l’antica tradizione della Hanai’ia, un’antica tecnica di allevamento che sfrutta delle vasche costruite direttamente nell’Oceano dagli antenati – chiamate Loko I’a. Questo metodo, del tutto pulito e naturale, aiuta a produrre tonnellate di pesce senza impattare l’ecosistema marino, e anzi contribuisce al ripopolamento della fauna.

Un altro esempio di come la saggezza popolare possa offrire soluzioni sostenibili, è la tecnica con cui per millenni gli aborigeni australiani hanno tenuto sotto controllo gli incendi della loro regione. Come sapete, l’Australia è stata soggetta negli ultimi mesi a immensi incendi, spesso andati fuori controllo. Questo è anche il risultato dell’abbandono dell’antica tecnica degli incendi preventivi. Bruciando preventivamente porzioni di flora – in condizioni controllate – si impedisce che in caso di incendi naturali o dolosi ampie porzione di sterpaglie alimentino le fiamme fino a essere ingestibili. Questa attività, inoltre, aiuta le popolazioni indigene a creare un indotto economico in quelle aree remote – il carbone derivante dagli incendi controllati – e contribuisce notevolmente a diminuire i gas serra che gli immensi incendi sviluppano.

Insomma: tornare ad ascoltare le voci delle popolazioni che da sempre vivono in simbiosi con la natura, potrebbe essere una delle chiavi per salvare il nostro pianeta!

WHO: l’80% dei teenagers non fa abbastanza esercizio fisico per una vita sana

In un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet il WHO, l’Agenzia ONU per la Salute Internazionale, ha sottolineato come l’80% dei giovani tra gli 11 e i 17 anni non pratica attività sportiva sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una vita in salute. Lo studio è stato condotto su un campione di giovani che copre 146 paesi, e conferma un trend che viene osservato dal 2001. Secondo gli esperti, a quell’età sarebbe l’ideale praticare almeno un ora di allenamento medio-intensivo al giorno, che può essere un qualsiasi sport, la corsa, la bicicletta, nuoto o persino la danza. Tenere il corpo in movimento, infatti, è fondamentale per il corretto sviluppo delle ossa e dei muscoli, ma anche per la funzionalità dell’apparato cardio-respiratorio. Non solo! Fare attività fisica da effetti benefici persino sul cervello e sulle sue performance, quindi maggiore rendimento nello studio e maggiore capacità di imparare in fretta con meno fatica. Probabilmente una delle cause di questa pigrizia è da ricercare nella crescente diffusione delle attività digitali, come smartphone, tablet e pc. Molti teenager preferiscono infatti chattare, guardare video o sfidare ai giochi online piuttosto che uscire e fare sport, e il WHO si è raccomandato che sia la scuola che le famiglie dovrebbero impegnarsi di più nel stimolare i giovani e le giovani a condurre una vita meno sedentaria. Anche la mancanza di tempo a volte è un fattore che ostacola l’attività sportiva: in molti casi però è possibile unire l’attività quotidiana con l’attività fisica, per esempio andando a scuola in bicicletta o a piedi. Secondo i medici infatti, non è necessario che i 60 minuti siano consecutivi, possono anche essere divisi in più momenti più brevi. 

Infine viene messo in luce come è importante abituarsi al movimento fin da giovani, perché un giovane non attivo lo sarà quasi sicuramente anche da adulto, con tutti i rischi in più che ciò comporta.

Tabella che riporta il tasso di inattività fisica tra i ragazzi e le ragazze in alcuni paesi della ricerca