Earth Overshoot Day: abbiamo finito le risorse del pianeta 4 mesi fa

Oggi sono esattamente 4 mesi che le risorse naturali sul nostro pianeta sono esaurite per il 2021. Tanto è infatti passato dal Earth Overshoot Day la giornata, caduta quest’anno il 29 luglio, che richiama l’attenzione sul tema del sovra-sfruttamento delle risorse: a partire da quella data, l’umanità inizia a consumare più risorse di quante il nostro Pianeta sia in grado di produrre e riassorbire.

Ma facciamo un passo indietro. Per comprendere la portata della giornata è bene riprendere il concetto di Impronta Ecologica (ecological footprint). Come forse saprete – ne avevamo già parlato qui – si tratta di un indice statistico che misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra che sono necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti.

Facciamo un esempio pratico. Se nel nostro giardino ci sono 100 alberi e per scaldare la nostra casa ne tagliamo uno al giorno, nel giro di poco più di tre mesi avremo finito la nostra riserva di alberi. Seguendo l’esempio, in questo caso l’impronta ecologica del nostro consumo è di circa 3 volte superiore alla nostra disponibilità (ovvero il nostro fabbisogno annuale equivale a 365 alberi a fronte di una disponibilità di solo 100).

Portando questo esempio su scala globale, possiamo provare a comprendere il senso della misurazione dell’impronta ecologica. Quello che la Giornata del sovra-sfruttamento della Terra rappresenta è infatti il momento in cui la nostra impronta ecologica supera la disponibilità offerta dal nostro pianeta: in altre parole raggiunto questo limite abbiamo consumato tutte le risorse che la Terra è in grado di generare e riassorbire per quell’anno.

A partire dal 30 luglio di quest’anno, quindi, stiamo consumando più di quanto ci potremmo permettere.

Questo parametro non è accettato universalmente. Come riconosciuto anche dagli stessi ideatori, Mathis Wackernagel e William Rees, il concetto di impronta ecologica ha diversi limiti: uno tra tutti, riduce tutti i valori presi in considerazione ad un unica unità misura che è la superficie terrestre, dando luogo a una rappresentazione potenzialmente non precisa di un sistema estremamente complesso e sfaccettato. Il vero problema, tuttavia, è che si tratta di un’imprecisione al ribasso.

Un aspetto molto significativo dell’Earth Overshoot Day sta nella scelta del giorno in cui celebrare questa data. Diversamente dalle tante altre giornate internazionali o mondiali di sensibilizzazione, la data in questione non è fissa ma calcolata ogni anno sulla base di diversi parametri. Pensate ad esempio che cinquanta anni fa, nel 1971, il giorno prescelto era il 10 dicembre.

Perché? la risposta è tanto banale quanto allarmante: ai tempi l’umanità arrivava a consumare tutte le risorse a disposizione quasi alla fine dell’anno, mentre oggi impieghiamo quasi cinque mesi in meno. Non si tratta di un cambio repentino. I grafici mostrano che, a parte piccole eccezioni, a partire dai primi rilevanti ogni anno la data è arretrata sempre più da quello che dovrebbe essere l’obiettivo, ovvero il 31 dicembre.

Il risultato di questo arretramento? Oggi l’umanità utilizza l’equivalente di un pianeta e mezzo, ovvero il nostro pianeta ha bisogno di un anno e sei mesi per rigenerare tutto ciò che noi usiamo in un anno. Di questo passo, entro il 2030 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per soddisfare la nostra fame di risorse.

C’è un solo problema: di pianeti ne abbiamo e ne avremo sempre e solo uno.

Per approfondire:

 

Catastrofi naturali e violenza sulle donne: una correlazione da spezzare

In occasione del 25 novembre proponiamo un articolo originariamente pubblicato sul sito di ActionAid, che offre una prospettiva diversa sul tema della violenza contro le donne.

 

Il caso di Haiti come esempio di un fenomeno sistematico.

Il 14 agosto scorso, quando un terremoto di magnitudine 7.2, ha colpito Haiti, le donne del Paese sapevano che, oltre alla devastazione portata dal sisma, avrebbero presto dovuto affrontare un’altra emergenza. Non si trattava della tempesta tropicale Grace che, a pochi giorni di distanza, si sarebbe abbattuta sulle aree terremotate, né degli scontri tra le gang della capitale, che negli ultimi mesi, soprattutto dopo l’uccisione del Presidente Jovenel Moïse, hanno costretto circa 19mila persone a scappare, e nemmeno della pandemia che continua a imperversare nel Paese.

Mentre piangevano la perdita dei propri cari e delle proprie case, dopo il sisma, molte donne hanno dovuto fare i conti con la consapevolezza di un nuovo pericolo: l’escalation di abusi sessuali previsto all’indomani di ogni disastro naturale. Un fenomeno devastante e sistematico, che molte avevano già subito nel 2010, quando un altro terremoto aveva colpito Haiti, mietendo oltre 200mila morti, distruggendo gran parte della capitale, Port-Au-Prince, e segnando profondamente la popolazione.

Si stima che, nelle sei settimane dopo il sisma del 2010, 10.813 persone abbiano subito abusi sessuali. La stragrande maggioranza di queste erano donne.

“Nel clima di caos e insicurezza degli enormi campi profughi, la violenza sessuale era aumentata moltissimo,” spiega ad ActionAid Marianne Toraasen, ricercatrice all’Università di Bergen, che ha studiato le conseguenze del sisma del 2010 sulla violenza di genere ad Haiti. “Per le donne, persino riuscire ad andare in bagno, la notte, era un rischio enorme.”

Il sisma dello scorso agosto ha dimostrato che, a undici anni di distanza, non molto è cambiato.

Nei campi profughi improvvisati, le sopravvissute non hanno potuto concedersi neanche un momento per affrontare il lutto di questa nuova catastrofe che ha travolto il Paese, registrando oltre 2,200 vittime e quasi 10mila feriti.  “Non ci sentiamo sicure,” ha raccontato ai microfoni di Agence France Press, Vesta Guerrier. Sopravvissuta al sisma di agosto, Guerrier aveva trovato un rifugio provvisorio in un campo profughi senza bagni accessibili, dove uomini e donne dormivano accalcati e dove la privacy rimaneva un’utopia. Per limitare i rischi nel campo, la comunità locale aveva cercato di riunire le donne e le bambine nella stessa area, istituendo squadre autogestite di addetti alla sicurezza improvvisati, per offrire una maggiore supervisione. Questo però non è bastato a trasformare il campo in uno spazio salvo.

“Ci può succedere di tutto,” ha spiegato Guerrier. “Soprattutto di notte. Chiunque può entrare nel campo.”

Haiti purtroppo non è un caso isolato. Diversi studi accademici hanno confermato un incremento del tasso di violenza di genere in seguito a una catastrofe. Secondo una ricerca della London School of Hygiene and Tropical Medicine, questo fenomeno è dovuto ad una serie di concause, tra cui la perdita delle abitazioni, delle relazioni famigliari e l’isolamento sociale improvviso causato dal disastro. Se, dopo aver perso la casa, molte donne sono costrette a dormire per strada o in campi profughi sovraffollati, spesso le bambine vengono separate dai genitori e ospitate da conoscenti, amici e parenti, nelle case che sopravvivono alla catastrofe e che diventano abitazioni provvisorie per molti adulti. Il sovraffollamento e la mancanza di spazi protetti per minori aumentano l’esposizione al rischio di abusi.

Benché la ricerca accademica abbia rivelato l’incremento del tasso di violenza dopo un disastro naturale, si scontra con la difficoltà di accedere a dati precisi durante un’emergenza.

Molto spesso, anche quando le sopravvissute riportano gli abusi subiti alle autorità, non vi è un seguito alla denuncia. Secondo uno studio della Loyola University, dopo che l’uragano Katrina aveva devastato New Orleans nel 2005, in diversi casi le denunce di violenza sessuale non erano state registrate ufficialmente, a causa della situazione emergenziale. Proprio per questo, lo studio sottolineava la necessità di includere linee guida per la prevenzione della violenza di genere nei protocolli di risposta alle emergenze naturali. Anche all’indomani di Katrina, un alto numero di abusi si era consumato nei campi allestiti per gli sfollati. Eppure, l’escalation dopo una catastrofe non riguarda solo gli abusi per mano di sconosciuti, ma anche la violenza domestica.

Secondo la ricerca, i disastri naturali amplificano alcuni degli elementi che tendono ad acuire la violenza, tra questi l’insicurezza finanziaria, il trauma e i problemi mentali. Si stima che, nel periodo successivo al sisma che aveva colpito la Nuova Zelanda nel 2011, nelle zone rurali del Paese, la violenza domestica sia aumentata del 40%.

Queste stesse dinamiche rendono le donne esponenzialmente più vulnerabili anche al cambiamento climatico. Esattamente come nel caso dei terremoti, secondo un recente rapporto dell’Unicef, i disastri climatici portano ad un aumento degli abusi sessuali e della violenza.

“La lotta al cambiamento climatico non è solo una lotta per mantenere il nostro pianeta vivibile,” hanno scritto diversi esperti in un articolo recentemente pubblicato sul blog del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, “Per molte donne, il cambiamento climatico può provocare la violenza.”

La violenza di genere rimane chiaramente un fenomeno umano. Le catastrofi vanno ad amplificare dinamiche già profondamente radicate all’interno della società. “Ad Haiti, la violenza contro le donne, specialmente quella sessuale, era un problema endemico anche prima del sisma del 2010. Con il terremoto vi è stata un’escalation” spiega la ricercatrice Marianne Toraasen. “Storicamente, lo stupro è stato usato come arma politica dai gruppi militari e paramilitari e dai gruppi criminali per controllare la popolazione.”

Ad Haiti, una donna su tre ha subìto violenza.  La società è segnata da una profonda disuguaglianza di genere e il sisma del 2010 aveva avuto conseguenze devastanti anche per il movimento per i diritti delle donne.

Nel terremoto erano rimaste uccise le leader Myriam Merlet, Magalie Marcelin e Anne Marie Coriolan, fondatrici di tre delle principali organizzazioni per la parità di genere nel Paese. “Tutte e tre avevano giocato un ruolo importantissimo nella ricostruzione del movimento dopo la dittatura di Duvalier,” racconta Toraasen. “Dopo la loro morte, le loro organizzazioni sono state ampliamente escluse dal processo decisionale post-terremoto.”

Le tre donne avevano avuto un ruolo chiave anche nella campagna che aveva finalmente portato alla criminalizzazione del reato di stupro nel 2005. Fino ad allora, lo stupro era considerato solo “un’offesa alla morale.” Secondo Toraasen, questo aveva rappresentato un grande passo avanti per le donne di Haiti. Purtroppo però gli ostacoli all’applicazione della legge rimangono enormi. Per le sopravvissute ottenere giustizia continua ad essere estremamente difficile, ancora oggi.

Il sistema legale è segnato da una serie di inefficienze strutturali dovute ad anni di instabilità, povertà e corruzione e da profondi pregiudizi di genere. Secondo gli esperti, questo non fa che alimentare il ciclo della violenza.

“L’impunità legittima chi è autore della violenza,” spiega Toraasen. “Se non ci sono conseguenze legali, perché smettere di infliggere gli abusi?”

Dal 2010 al 2019, la Norvegia aveva organizzato corsi di aggiornamento per formare la polizia di Haiti sulla violenza di genere. L’efficacia dell’iniziativa è stata però limitata dall’instabilità politica ed economica del Paese. Molti degli agenti formati non fanno nemmeno più parte delle forze dell’ordine. “È difficile dare seguito a questo di programmi con un’instabilità così pervasiva,” afferma Toraasen.

Non sono però solo le falle del sistema giudiziario a contribuire all’impunità. La povertà e la mancanza di indipendenza economica femminile rappresentano un altro giogo enorme. “In diversi casi in cui i giudici hanno sentenziato l’arresto del partner abusivo, le donne si sono opposte,” continua Toraasen. “Mettere gli uomini in prigione le avrebbe protette ma le avrebbe anche private del sostentamento economico. Diverse madri avevano paura di non riuscire a mantenere i figli da sole.”

Secondo Angeline Annesteus, country director di ActionAid Haiti, da anni le donne e le bambine pagano sulla propria pelle le conseguenze più devastanti delle varie crisi che si sono susseguite nel Paese.

Le donne soffrono le conseguenze più dure dell’instabilità politica, che ha subito un’ulteriore grave escalation dopo l’assassinio del presidente lo scorso luglio. Il Center for Analysis and Research for Human Rights, ha riportato che, da gennaio a settembre, sono stati registrati 628 rapimenti, la maggior parte di questi funzionali a finanziare i gruppi criminali. “Le donne rapite sono stuprate e abusate,” ha dichiarato ai microfoni di France24, Pascale Solages, un’attivista femminista. “Oltre al tema dei rapimenti, dobbiamo mettere al centro del dibattito l’impatto che questa situazione ha specificatamente sulle donne.”

La combinazione di crisi governative, disordini e catastrofi naturali non ha impedito la sopravvivenza del movimento per i diritti delle donne ad Haiti. Nell’ultimo anno, in molte sono scese in piazza più volte per chiedere misure concrete contro la violenza e l’insicurezza.

Secondo Toraasen, è difficile avere dati precisi sugli abusi perpetrati dopo il sisma di agosto. La situazione ad Haiti è estremamente difficile, con crisi ed emergenze diverse che continuano ad abbattersi sul Paese. “Ci vorrà ancora tempo,” spiega Toraasen. “Se non altro, il lavoro portato avanti dalle organizzazioni locali e internazionali degli ultimi anni ha in qualche modo contribuito al cambiamento culturale nella percezione della violenza, che per anni era rimasta un tabù.”

Articolo pubblicato su Actionaid.it

Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: riflettiamo sulla partecipazione!

Ormai trent’anni sono trascorsi dal riconoscimento che i bambini, le bambine, i e le adolescenti sono cittadin*, quindi soggetti aventi pienamente diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici: lo attesta la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia nel maggio 1991.

Ogni anno il 20 novembre, data in cui l’Assemblea generale ONU adottò la Convenzione nel 1989, si celebra la Giornata Mondiale dei diritti dei bambini. Indivisibile è il rapporto tra lo sviluppo inclusivo, equo e sostenibile promosso dall’Agenda 2030 e la realizzazione dei diritti delle persone di età minore: i suoi principi si dimostrano trasversali anche nella lettura dell’Agenda 2030, il cui obiettivo è quello di “non lasciare nessuno indietro”, di proteggere la vita mirando alla sostenibilità e di creare un mondo dove le generazioni presenti e future possano sentirsi protagonisti e beneficiari e dove i loro diritti siano garantiti a pieno titolo. 

Organizzata in 54 articoli, la Convenzione si basa su quattro principi fondamentali e trasversali: la non discriminazione (art. 2), il Superiore interesse (art. 3), il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino e dell’adolescente (art. 6), l’ascolto delle opinioni del minore (art. 12). Seppur fondamentale approfondirne contenuti e principi e rimandandovi alla fonte autorevole dell’Unicef per approfondire, oggi ci teniamo a promuovere qualche riflessione proprio sull’articolo 12 e sull’ inquadramento della child e youth participation 

L’articolo riconosce il diritto dei bambini e delle bambine, e degli e delle adolescenti a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni. E’ un articolo e un principio caro ad ActionAid Italia, che si impegna in Italia e nel mondo prioritariamente per garantire e monitorare che la partecipazione dei e delle cittadine sia garantita in tutti i processi politici e decisionali che li e le riguardano. E, in particolare, sia obbligatorio nell’ambito delle politiche educative e sociali, garantirlo per i e le cittadine minorenni.  

Urgente è provvedere in tal senso, in particolare dopo l’emergenza pandemica che ha esacerbato le diseguaglianze, sia sociali sia educative, in particolare tra i e le cittadine minorenni: dispersione scolastica, ritardi negli apprendimenti, ma anche aumento dei casi di violenza (online e fisiche), malessere sociale e relazionale. Il 2021 è iniziato tuttavia con qualche segnale di cambiamento: a livello europeo, è stata lanciata la prima strategia generale dell’UE sui diritti dei minori, nonché una proposta di raccomandazione del Consiglio che istituisce una garanzia europea per l’infanzia (Child guarantee), al fine di promuovere pari opportunità per i minori a rischio di povertà o di esclusione sociale: la protezione e la promozione dei diritti dei minori sono obiettivi fondamentali dell’attività dell’Unione europea, sia al suo interno che nel resto del mondo. Sono principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la tutela dei diritti dei minori nell’attuazione del diritto dell’Unione, costituiscono obiettivi trasversali a tutti i settori politici e rientrano nelle priorità fondamentali della Commissione europea. Perciò l’Unione deve promuovere e migliorare la partecipazione inclusiva e sistemica dei minori a livello locale, nazionale e dell’UE (1) 

In Italia, si è insediata una nuova Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Carla Garlatti, la quale, nell’esporre le linee programmatiche del proprio mandato di fronte alla Commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza ha ribadito il proprio impegno in tema di ascolto e partecipazione dei minorenni annunciando l’imminente convocazione della Consulta dei ragazzi e delle ragazze. In seguito a questo, ha lanciato “La scuola che vorrei” una consultazione pubblica tra gli e le studenti. I quesiti, sottoposti a chi ha un’età compresa tra i 14 e i 18 anni, in collaborazione con Skuola.net, sono stati elaborati dalla stessa Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Agia 

 

Ma cosa significa reale partecipazione dei e delle cittadine minorenni?  

Secondo il modello della child participation dell’accademica Laura Lundy (2), ripreso anche nel framework del Consiglio europeo (3), possiamo sicuramente dire che la partecipazione non è mera consultazione e non è un principio spot, ma deve necessariamente essere inserita all’interno di un processo. La partecipazione non è simbolica e non è casuale, altrimenti rischia di essere meramente decorativa. La partecipazione deve essere garantita attraverso l’affidabilità, l’ascolto individuale e collettivo, l’accompagnamento e deve richiede tempi e spazi dedicati. E’ quindi un processo che non si improvvisa.  

Il modello di Lundy concettualizza l’articolo 12 della CRC dell’ONU e richiama i responsabili di un’attività o di una politica educativa a considerare i seguenti 4 elementi di un processo partecipativo, distinti ma integrati tra loro e correlati da domande guida, a nostro avviso adattabili a ogni contesto di intervento, anche scolastico e educativo: 

  • LO SPAZIO: a ragazzi e ragazze deve essere garantito uno spazio sicuro e inclusivo per formare e esprimere le loro idee (L’opinione degli stessi è stata attivamente ricercata e promossa? Lo spazio era sicuro e accessibile per tutti e tutte? Sono state previste delle azioni per facilitare l’espressione consapevole di tutti e tutte?) 
  • LA VOCE: ragazzi e ragazze devono essere supportati e facilitati per esprimere la loro visione (Sono state fornite tutte le informazioni ai ragazzi e ragazze per formarsi un’idea? Sanno che non sono obbligati e obbligate a parlare? Sono state fornite delle opzioni diverse per esprimersi?) 
  • AUDIENCE: l’idea o il bisogno deve essere ascoltata realmente e con cura (E’ stato previsto un processo per far conoscere le idee e proposte di ragazzi e ragazze? Gli e le stesse sanno a chi verranno comunicate le loro idee? I soggetti o enti che ricevono i risultati del processo partecipativo hanno potere di decisione?) 
  • INFLUENZA: la visione, l’idea, il bisogno deve essere “agito” e deve concretamente realizzato nelle politiche o le azioni di un processo (Le idee e visioni dei ragazzi e ragazze sono state realmente considerate da chi ha il potere? Ci sono procedure che garantiscano che le loro idee e visioni siano seriamente prese in considerazione? Sono stati organizzati dei momenti di feedback a ragazzi e ragazze rispetto alle decisioni finali prese?) 

Il modello può essere perciò uno stimolo a interrogarci individualmente, come docente, come educatore o educatrice, così come collettivamente, come corpo docente, associazione o istituzione politica, se il processo partecipativo da noi sviluppato ha realmente garantito i 4 elementi fondamentali e si è mosso quindi verso una consultazione youth-led, non solo consultiva e collaborativa, ma realmente proposta, guidata, monitorata dai e dalle giovani in prima persona.  

 

  1. Strategia europea diritti dei minori https://famiglia.governo.it/media/2334/strategia-eu-sui-diritti-dei-minori.pdf 
  2.  https://childhub.org/en/child-protection-online-library/lundy-model-child-participation 
  3. Recommendation CM/Rec(2012)2 of the Committee of Ministers to member States on the participation of children and young people under the age of 18

“La pandemia degli adolescenti”: 16 mesi in un libro

Cosa abbiamo imparato dal lockdown? Ma, soprattutto, cosa hanno provato gli adolescenti in più di un anno chiusi in casa?

Sembra già passata un’infinità di tempo, ma da quell’8 marzo 2020 non sono ancora passati neanche due anni.

Nel corso di questi quasi due anni ci sono stati diversi lockdown e una lunga (lunghissima!) serie di DPCM che hanno scandito le nostre vite, rendendoci dei veri e propri esperti di tutta una serie di tematiche che, fino al 2019, non avremmo neanche immaginato che sarebbero diventati parte integrante della nostra quotidianità.

Nel libro “La pandemia degli adolescenti”, edito da Fondazione Media Literacy, si possono trovare testimonianze di studentesse e studenti che, da marzo 2020 a maggio 2021, hanno scritto sul mensile Zai.net, la rivista che da 22 anni dà voce agli adolescenti.

Il libro nasce dalla selezione di più di 700 testimonianze: le parole dei giovani reporter esprimono sofferenze e disagi profondi anche perché per 16 mesi si sono sentiti non considerati, silenziati, invisibili. Tutti ne parlano, Zai.net – come sempre – fa parlare loro.

Anche lo scatto in copertina è realizzato da un giovane reporter di Zai.net, che ha deciso di ritrarre la sorella durante i mesi di reclusione domestica e convivenza forzata.

“E ora che si ricomincia? – si chiede Lidia Gattini, segretario generale della Fondazione – Potrebbe essere una grande occasione per non accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma cambiare sul serio. La definizione del Ministro Bianchi di scuola affettuosa che, dopo anni di individualismo, faccia ritrovare a tutti la bellezza di vivere con gli altri, che includa i più fragili e divenga il motore di una crescita del Paese è affascinante e di grande stimolo per chi, come noi, lavora con le studentesse e gli studenti da oltre vent’anni, offrendo loro l’opportunità di esprimersi sui media”.

Proprio perché sappiamo quanto sia importante la possibilità di esprimersi, il ricavato del libro (ultimato nei giorni in cui i talebani prendevano Kabul) sarà devoluto alla Fondazione Pangea ONLUS, perché una corretta educazione ai media è innanzitutto una corretta educazione umana. Questa pubblicazione mette in luce le tante difficoltà che si sono trovati ad affrontare durante la pandemia e come questa abbia cambiato le loro abitudini, ma anche rivelato inaspettate risorse e capacità di elaborare richieste concrete per il futuro.

Potete ottenere il libro e maggiori informazioni qui

La Giornata Internazionale contro il Bullismo e Cyberbullismo a scuola

Il bullismo (e la sua variante online, cyberbullismo) all’interno delle scuole è un fenomeno che coinvolge sempre più bambini, bambine e adolescenti in tutto il mondo. Per questo motivo, dallo scorso anno, l’Unesco ha dichiarato il primo giovedì del mese di novembre la “Giornata Internazionale contro il bullismo e il cyberbullismo a scuola”. Scopo della celebrazione è riconoscere e promuovere la consapevolezza che la violenza legata alla scuola, in tutte le sue forme, è una violazione dei diritti dei bambini e delle bambine, e degli e delle adolescenti all’istruzione e alla salute e al benessere. 

Come avrete intuito, per il 2021, quel primo giovedì di novembre è proprio oggi. Il tema scelto quest’anno è in particolare il contrasto del cyberbullismo e delle forme di violenza online che coinvolgono i bambini e le bambine, ma anche gli e le adolescenti. L’argomento è estremamente attuale, poiché come ben sapete, negli ultimi due anni, a causa della pandemia, il tempo che le e gli studenti passano davanti a uno schermo, o comunque in un ambiente digitale, è aumentato considerevolmente (negli USA è addirittura raddoppiato!), e di conseguenza è aumentato il rischio di subire  questo genere di violenza.

Nonostante i dati globali non siano molti, quelli che ci sono mostrano come gli episodi di cyberbullismo siano aumentati in quasi tutti i paesi. In Europa, per esempio, il 44% dei bambini che avevano subìto cyberbullismo prima del Covid, hanno affermato che questo è aumentato durante i lockdown 

La violenza online, compreso il cyberbullismo, ha un effetto molto negativo sui risultati scolastici, sulla salute mentale e sulla qualità della vita delle e degli studenti. I bambini e le bambine che sono spesso vittime di bullismo hanno quasi tre volte più probabilità di essere lasciati indietro a scuola rispetto a quelli che non lo sono.  

E sebbene il fenomeno non sia confinato agli ambienti scolastici, il sistema educativo ha un ruolo e una responsabilità importante nel preparare le e gli studenti ad affrontare i temi della sicurezza online, della cittadinanza digitale e dell’uso consapevole della tecnologia, dando loro le conoscenze e le competenze per identificare la violenza online e proteggersi dalle sue diverse forme, sia che sia perpetrata da coetanei o da adulti. 

proprio dalla scuola proviene la buona pratica che vogliamo condividere in questa giornata così significativa. Si tratta del progetto MABASTA – Movimento AntiBullismo Animato da Studenti Adolescenti, ideato per contrastare ogni forma di bullismo, cyberbullismo, sopraffazione e mancanza di rispetto. L’idea di MABASTA è nata da Mirko Cazzato in collaborazione con i e le compagne di classe dell’Istituto Galilei-Costa-Scarambone di Lecce nel 2016, come antidoto al dilagare di episodi di bullismo e cyberbullismo in tutta Italia.  

I e le più attente si ricorderanno che abbiamo già parlato di Mirko e del progetto MABASTA in una puntata della nostra serie di video-podcast “Youth Talk” (la potete recuperare qui). Oggi, in occasione della Giornata Internazionale contro il Bullismo e Cyberbullismo a scuola, vi proponiamo una nuova intervista a Mirko.

Buona visione!

Alieni… che non vengono dallo spazio! 

Siamo ormai talmente abituati a vedere pappagalli verdi tra gli alberi delle nostre città e gradi fiori fucsia sulle dune costiere da non chiederci neanche più da dove arrivino, né quando siano diventati più numerosi. Questi e molti altri ospiti “inattesi” in Italia fanno parte delle cosiddette specie aliene: così si chiamano piante e animali introdotti dall’uomo (volontariamente o accidentalmente!) in un ambiente diverso da quello di origine e che sono riusciti a stabilirsi con successo in un altro habitat.

Tra le specie aliene, poi, alcune si definiscono invasive (o anche IAS, acronimo dell’inglese “invasive aliene species”), ovvero quelle che si riproducono e si diffondono così rapidamente da entrare in conflitto con le specie residenti soprattutto per le risorse del cibo e del territorio.  

Secondo le ultime stime elaborate dal centro di ricerca Senckenberg sulla biodiversità e il clima di Francoforte, in Europa negli ultimi 30 anni il numero di specie aliene è cresciuto del 76%! Si tratterebbe di un dato addirittura in crescita, destinato ad aumentare con circa 2500 specie entro il 2050. Per ogni 100 specie aliene che arrivano in un’area, si stima che solo 1 diventi invasiva.  

Ma quali sono gli effetti di questo fenomeno? Gli impatti sono tanti e diversi, a partire da una pericolosa perdita di biodiversità fino ad arrivare alle conseguenze di tipo sociale, economico e sanitario.  Facciamo qualche esempio. Tutti noi conosciamo la zanzara tigre (Aedes albopictus), che negli ultimi 30 anni si è diffusa in maniera incontrollata in tutto il mondo ed è originaria del Sudest asiatico. La sua presenza ha modificato il nostro stile di vita negli ambienti aperti e ha contribuito significativamente alla trasmissione di diversi virus.

Un altro insetto di cui molti avranno sentito parlare è il punteruolo rosso (Rhynchophorus ferrugineus): questo parassita ha distrutto migliaia di palme modificando in poco tempo la struttura dei parchi urbani delle città in cui si è insediato. Altri esempi di specie che possiamo trovare in Italia sono: 

  • Parrocchetto dal collare (Psittacula krameri) originario dell’Africa centro settentrionale e della regione indo-pakistana; 
  • Fico degli Ottentotti (Carpobrotus spp) originario del Sudafrica; 
  • Gambero rosso della Louisiana (Procambarus clarkii) originaria del Nord America; 
  • Rana toro americana (Lithobates catesbeianu) originaria del Nord America; 
  • Testuggine palustre americana (Lithobates catesbeianus) originaria del Nord America, Centro America, regioni nordoccidentali del Sudamerica. 

Gli zoologi dell’Ispra sostengono che, nonostante questo problema sia percepito dalla collettività come un problema minore, sia a livello globale una delle cinque minacce più pericolose alla biodiversità.

Inoltre, i dati dimostrano che anche i costi economici generati dalle specie invasive sono davvero imponenti: sulla prestigiosa rivista scientifica Nature si legge che tra il 1970 e il 2017 sono stati spesi complessivamente nel mondo una media di 26,8 miliardi di dollari ogni anno per i costi associati ai danni e alle attività di gestione e controllo delle specie. Il danno provocato è drammatico e silenzioso: sulla biodiversità, sull’impollinazione dei raccolti, sulle risorse idriche, sulla produttività agricola, sulla salute pubblica… Le soluzioni esistono, ma per ripristinare l’ambiente originario e ottenere effetti positivi sulla biodiversità, il processo è spesso lungo e i costi sono enormi.  

Quella delle specie aliene è una situazione complessa, che viene complicata ulteriormente dalle dinamiche di un mondo interconnesso e dal cambiamento climatico in atto. Molte attività economiche possono favorire l’arrivo per lo più accidentale di nuove specie, per esempio il commercio di animali, la navigazione, l’acquacoltura o la pesca sportiva. Eppure, tutti possiamo dare il nostro contributo alla gestione delle specie, compiendo piccole scelte che possono avere grandi risultati!  

(articolo adattato da Nuova Ecologia – numero di settembre 2021) 

Per approfondire: 

Progetto “LifeAsap” per la promozione di una gestione efficace delle Ias tramite la partecipazione attiva dei cittadini:  https://www.lifeasap.eu/index.php/it/ 

“Life PonDerat”, un esempio di progetto per l’eradicazione   di specie aliene invasive nell’habitat delle Isole Ponziane:  http://www.ponderat.eu/