Si sa, alle donne piace il rosa: colore della femminilità e della raffinatezza.
Si sa, alle donne piace truccarsi: vogliono apparire belle, sempre o comunque.
Si sa, alle donne piace fare shopping: comparsi vestiti, che poi non riescono ad infilare nell’armadio
Si sa, le donne sono romantiche: amano le rose donate con passione, i baci davanti a tramonti infuocati e le cena mondane a lume di candela.
Si sa, le donne sono emotive: si emozionano davanti ad un lieto fine, versano lacrime di gioia davanti ad un regalo inaspettato e piangono lacrime amare di fronte ad una delusione amorosa.
Si sa, le donne sono indifese: esseri delicati da proteggere, così fragili e cagionevoli
Si sa, le donne voglionoessere ascoltate: e chi non lo vorrebbe?
Si sa, le donne voglionosentirsi indipendenti: e chi non lo vorrebbe?
Si sa, le donne vogliono essere amate: e chi non lovorrebbe?
Le donne sono, fanno, pensano e dicono. Le “donne” come etichetta standardizzata, che semplifica una realtà assai complessa. Tutto si riconduce al fatto di essere donne.
Ma le donne, prima di essere donne, sono individui e come tali hanno caratteristiche, passioni, pensieri ed emozioni che le rendono uniche nell’universo (a meno che non esistano dimensioni parallele!)
In quest’ultimo appuntamento della rubrica book club dedicato alle donne e ispirato al libro “Storie della buona notte per bambine ribelli” di Elena Favilli e Francesca Cavallo abbiamo deciso di parlarvi di una donna che ha combattuto per tutta la sua vita e con tutta la sua persona nella lotta dei diritti per la parità di genere: Ruth Bader Ginsburg.
Ruth è stata la seconda donna della storia americana (dopo Sandra Day O’Connor) a far parte della Corte Suprema[1], massimo organo giudiziario degli USA.
Vita privata
È nata a Brooklyn nel 1933 da genitori ebrei immigrati dalla Russia, dopo il diploma di scuola superiore si è laureata alla Cornell University per poi iscriversi alla prestigiosa scuola di legge di Harvard (fu una delle 9 donne su 552 studenti) senza però concluderla a causa di disguidi amministrativi e così si laureò alla Columbia University.
Si sposò molto giovane con un avvocato che la sostenne nelle sue battaglie nonostante in molti gli dicessero che Ruth doveva stare a casa a sfornare biscotti e prendersi cura della casa e della figlia. Lui però non li ascoltava.
Vita lavorativa
Per anni fu avvocata e si batte per il riconoscimento e l’eliminazione della discriminazione di genere presente nella società statunitense e di quel periodo lei disse: “I giudici pensavano di essere dei bravi padri, dei bravi mariti, e non consideravano discriminatori gli ostacoli che dovevano affrontare le donne, credevano davvero nell’idea conservatrice che le distinzioni – le donne non dovevano fare le giudici – fossero per il loro bene, per la loro tutela. La società non era ancora avanzata al punto da influenzare la Corte”.
Il cambiamento è arrivato grazie alle lotte femministe degli anni ’70 ma anche grazie a lei e a ad una causa “Reed v. Reed” per cui si batté strenuamente. Due ex coniugi separati si contendevano la proprietà immobiliare del loro figlio deceduto e la legge dell’Idaho, lo Stato in cui risiedevano, prevedeva che in questi casi la precedenza fosse data al padre. Ginsburg scrisse la difesa della donna sostenendo che i trattamenti differenziati che stava ricevendo erano di carattere discriminatorio e che per questo costituivano una violazione del quattordicesimo emendamento. Grazie a ciò, la Corte Suprema deliberò in favore stabilendo che non possono esserci discriminazioni tra uomo e donna nella nomina dell’amministratore di una proprietà immobiliare.
Nei ventisette anni in cui fu giudice alla Corte Suprema «ha rivoluzionato il mondo del diritto e della giustizia, battendosi apertamente per il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona e per la eliminazione di quelle arretratezze culturali e incrostazioni del sistema giudiziario che continuavano ad operare sul fronte dell’uguaglianza dei diritti e della parità di trattamento, con l’effetto di ridurre per tutti, non solo per le donne, gli spazi di libertà e di autodeterminazione necessari per una piena cittadinanza».
Famosi sono infatti i suoi “I dissent” (sono in disaccordo) con i quali si opponeva alle ingiustizie che incontrava.
È morta all’età di 87 anni il 18 settembre 2020, poche settimane prima delle presidenziali americane.
[1] La Corte Suprema è l’organo giudiziario federale di grado più elevato nella magistratura statunitense. In modo simile alla nostra Cassazione, la Corte Suprema esprime pareri sulla legittimità delle sentenze di primo e secondo grado, emanate rispettivamente dai tribunali distrettuali e dalle corti d’appello.
Gro Harlem Brundtlandè una politica e attivista norvegese. La sua figura, impegnata sul fronte ambientalista e femminista, ha avuto un ruolo fondamentale nell’elaborazione della moderna definizione di Sviluppo Sostenibile.
Il suo inizio di carriera è nel campo della medicina, e la sua particolare attenzione alla Cura e alla Salute uman, che Gro Harlem considera fortemente interconnesse con le tematiche ambientali e sociali dello sviluppo, le fa ben presto allargare il suo campo di azione.
Già Ministro della Salute nel 1965, nel 1974 è nominata Ministro dell’Ambiente e successivamente ricopre, durante tre diversi mandati, la carica di Primo Ministro norvegese per quasi 10 anni consecutivi, nel periodo tra il 1981 ed il 1996. È stata la prima donna, nonché la persona più giovane, ad aver mai ricoperto tale carica.
Nel 1983 viene nominata Presidente della Commissione mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED), istituita dalle Nazioni Unite in quello stesso anno. Durante la sua presidenza Gro Harlem Brundtland fornisce un fondamentale contributo alla teoria dello Sviluppo Sostenibile, incaricando la redazione di un rapporto sullo stato dello Sviluppo. La Commissione nel 1987, dopo oltre tre anni di lavoro, pubblica l’omonimo Rapporto Brundtland. Al documento, intitolato «Our common future» (Il nostro comune futuro) viene fatta risalire la definizione dello Sviluppo Sostenibile come ancora oggi la intendiamo.
Nel 1998 viene nominata Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), carica che ha ricoperto fino al 2003. Nel 2007 è stata nominata incaricato speciale delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici.
Lo SVILUPPO diventa SOSTENIBILE
L’esigenza e la necessità di ridefinire il concetto di Sviluppo si presentano già durante gli anni Settanta dello scorso secolo, quando matura sempre più una coscienza critica comune dell’insostenibilità del tradizionale modello di Sviluppo e dei danni che questo stava causando sull’ecosistema terrestre e alle future generazioni.
Nel Rapporto Brundtland del 1987 si osservano importanti conquiste innovative.
Economia, Ambiente e Società
Innanzitutto si supera definitivamente la tradizionale disconnessione tra crescita economica e salvaguardia della Natura. Diventa centrale l’approccio sistemico, poiché l’interconnessione fra i vari ambiti della sistema Terra crea trade-off e sinergie che l’uomo non può più ignorare. Si riconosce infatti come la tutela ambientale non può prescindere dallo Sviluppo Sostenibile in termini di riduzione della povertà, parità di genere e ridistribuzione della ricchezza.
“Ambiente e sviluppo non sono realtà separate, ma al contrario presentano una stretta connessione. Lo sviluppo non può infatti sussistere se le risorse ambientali sono in via di deterioramento, così come l’ambiente non può essere protetto se la crescita non considera l’importanza anche economica del fattore ambientale. Si tratta, in breve, di problemi reciprocamente legati in un complesso sistema di causa ed effetto, che non possono essere affrontati separatamente, da singole istituzioni e con politiche frammentarie” si legge nel Rapporto Brundtland.
Lo Sviluppo Sostenibile, ampliando la visione della realtà, supera sia la concezione di Sviluppo come mera crescita economica, sia la concezione di Sostenibilità come semplice idea ambientalista.
Giustizia intergenerazionale
Il Rapporto Brundtland inoltre ristabilisce il fondamentale ruolo dell’Etica del comportamento umano, che non può più considerarsi illimitato e privo di conseguenze. “Non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo di rischiare il non essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali, anzi abbiamo un dovere rispetto a ciò che non esiste, perché in quanto non esistente, non ne avanza la pretesa” affermava il filosofo Hans Jonas.
Lo Sviluppo Sostenibile è così definito nel Rapporto Brundtland come quello “sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Il Principio di Responsabilità deve limitare e controllare il potere umano di creazione e distruzione.
“Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”ci ricorda un antico proverbio Masai.
Il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 consiste nel porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile.
Sono diversi i fattori che impediscono il suo raggiungimento, uno fra questi è il land grabbing.
Che cos’è il land grabbing
Il land grabbing (o accaparramento di terra) è un fenomeno nato con la crisi economica e finanziaria del 2008 a seguito dell’aumento dei prezzi degli alimenti, che ha spinto i governi e le multinazionali del nord del mondo ad acquistare terreni nei paesi del sud con lo scopo di produrre cibo, mangimi e biocombustibili.
Questo perché si sono resi conto che le loro risorse naturali si stavano esaurendo e quindi era necessario trovare dei luoghi alternativi.
Le principali conseguenze di questo tipo di pratica sono:
L’eccessivo utilizzo del suolo che finisce per impoverirsi;
Molto spesso le terre accaparrate sono della popolazione che abita in quei luoghi da generazioni e che sono costrette ad andarsene;
L’aumento dell’insicurezza alimentare di centinaia di milioni di persone;
Tutto ciò va a inficiare negativamente soprattutto la vita delle donne del posto. Perché?
Le conseguenze negative sulle donne
Le donne svolgono un ruolo fondamentale nei sistemi agricoli di tutto il mondo, in particolare nei paesi in via di sviluppo.
Per loro, infatti, disporre di un accesso libero e indipendente alla terra da coltivare significa poter godere di una serie di diritti quali quello all’istruzione e alla libertà dalla violenza, ma significa specialmente una forte emancipazione sociale.
Il loro accesso alle risorse naturali è impedito da diversi fattori:
la discriminazione di genere: nei paesi in cui è presente la pratica del land grabbing, c’è una prevalenza di sistemi sociali e culturali fortemente patriarcali che impediscono alle donne di poter prendere parte alla gestione dei terreni, costringendole quindi alla completa dipendenza economica dal marito;
i terreni che loro coltivano sono definiti dai governi dei paesi in via di sviluppo come “marginali” o “inutilizzati” in quanto vengono coltivati principalmente prodotti volti alla sussistenza della famiglia, non destinati al commercio e quindi non utili ad arricchire le casse dello stato;
È chiaro che questo tipo di pratica danneggia principalmente le donne, impedendo loro il raggiungimento dell’emancipazione sociale ma soprattutto si crea un circolo vizioso in cui i paesi in via di sviluppo che sono più ricchi del mondo in termini di risorse sono costretti a soffrire la fame a causa dei paesi con scarse risorse ma con grandi poteri.
Da Fabrizio Pregliasco, epidemiologo dell’Università di Milano e presidente Anpas, all’Unesco, molte le voci qualificate che promuovono il ruolo dello sport per tutti per combattere il Covid-19
La pandemia da Covid-19, con cui tutto il mondo sta combattendo da ormai un anno, ha messo in luce l’importanza della tutela della salute e della prevenzione. Quasi un quarto della popolazione mondiale ha una condizione di salute di base che aumenta la vulnerabilità al virus. Durante la pandemia, inoltre, i problemi di salute mentale sono aumentati in modo esponenziale, in particolare tra i giovani, e l’inattività fisica può ora essere considerata come una pandemia parallela.
Su questi temi è intervenuto anche l’epidemiologo Fabrizo Pregliasco, presidente dell’Anpas, in occasione di un incontro on line organizzato dall’Uisp per la chiusura del progetto europeo Eyess
“Ormai è dimostrato come lo stile di vita sia fondamentale in termini di aspettativa di vita e qualità della stessa – ha detto nel suo intervento Pregliasco – Quindi dobbiamo lavorare per promuovere questo aspetto attraverso lo sport dilettantistico, passando in particolare dai giovani. I fattori di rischio delle patologie croniche, ma anche per il sistema immunitario, dipendono in grande misura dallo stile di vita: alimentazione eccessiva e sedentarietà sono i principali indiziati. Indagini nazionali e internazionali confermano che questi fenomeni si manifestano soprattutto nei giovani protraendosi poi nel tempo”
L’attività fisica e motoria può essere, quindi, un antidoto da promuovere anche contro le malattie: “L’attività fisica deve essere adattata a tutte le età e abilità, e non va intesa come prestazione ai massimi livelli, perché l’eccesso porta conseguenze negative, e non parlo solo del doping. Se estremizzato lo sport può far male, invece l’attività deve essere adattata alle caratteristiche delle persone e all’età, deve essere gratificante, motivante ma anche divertente, che sia strutturata o meno”.
L’attenzione posta in questo ultimo anno alla salute, alla prevenzione, all’igiene come strategia per proteggersi dal virus, potrebbe portare a cambiare il nostro stile di vita. “Credo che il Covid ci abbia fatto scoprire queste cose – ha detto Pregliasco – e spero che possa costituire un elemento di consapevolezza rispetto all’esigenza della prevenzione, che è meno efficace delle terapie e quindi più faticosa: il farmaco risolve il problema ed è immediato, invece la prevenzione per le malattie infettive è un impegno giornaliero, che richiede motivazione e voglia di fare. Lo sport è aggregazione e va pensato come un farmaco preventivo. Purtroppo questo periodo ci sta chiedendo un grande sforzo per l’assenza di socializzazione ma, come gli altri elementi di cui abbiamo parlato, il movimento fa parte di uno stile di vita che, se acquisito fin da giovani, permette uno sviluppo equilibrato, che comprende anche principi di correttezza, lealtà e capacità di stare insieme, quale è lo sport promosso e praticato dall’Uisp. Alimentazione, sedentarietà e fumo sono i killer del futuro: abbiamo guadagnato anni di vita ma nelle fasce più avanzate la qualità della vita non è ancora adeguata. L’attività sportiva è fondamentale, nei suoi aspetti di aggregazione, metodica, tecnica, per un futuro in salute dei giovani di oggi che saranno gli adulti di domani”.
In tempi di pandemia anche l’Unesco è scesa in campo per proporre l’attività fisica e motoria come strumento di prevenzione in tutte le età della vita, sostenendo un progetto teso all’implementazione di una educazione fisica di qualità, che metta al centro la persona e promuova sani stili di vita, partendo dai giovani e per tutta la vita. La partecipazione a programmi di attività fisica che adottino questo approccio, secondo l’Unesco, migliora la salute fisica, riduce le patologie mentali croniche e sviluppa la resilienza socio-emotiva. Il programma fornisce, inoltre, un’indicazione per la partecipazione all’attività fisica in tutte le età della vita, educando a sani e corretti stili di vita fin da giovani. Per questi motivi, l’educazione fisica di qualità rappresenta una componente importante nella nuova campagna dell’Unesco, denominata “Fit for life”, che intende contrastare gli effetti del Covid. La campagna è stata progettata per rispondere agli effetti immediati della pandemia in corso sulla salute fisica e mentale.
Contrariamente ai programmi di educazione fisica tradizionali, che adottano un approccio uguale per tutti, un’educazione fisica di qualità si basa sull’opportunità data a tutti gli studenti di accedere a un programma bilanciato e inclusivo. Il progetto QPE (Quality Physical Education) supporta l’acquisizione di abilità psicomotorie, sociali ed emotive, che definiscono cittadini sicuri di sé e resilienti. Sottolinea, inoltre, il valore dell’alfabetizzazione fisica come pietra miliare dello sviluppo che contribuisce alla consapevolezza del proprio corpo, alla competenza fisica e al divertimento nello svolgimento dell’attività fisica e motoria.
Le tre nuove pubblicazioni QPE sono basate su evidenze scientifiche e rendono operativi i risultati del progetto pilota sull’educazione fisica di qualità promosso dall’UNESCO in quattro Paesi del mondo (Fiji, Messico, Sudafrica e Zambia), considerato “una delle iniziative globali più notevoli e significative nel campo dell’educazione fisica del secolo scorso” da un team di valutatori indipendenti dell’Istituto per lo sport e lo sviluppo in Sud Africa.
Le pubblicazioni includono un documento basato sulle evidenze scientifiche, che presenta le ragioni per investire in un’educazione fisica di qualità (QPE). Il contenuto attinge direttamente ai risultati degli interventi nei paesi pilota che dimostrano il valore dei partenariati intersettoriali nello sviluppo delle politiche QPE e nell’erogazione di una programmazione di educazione fisica di qualità che può accelerare gli sforzi di recupero post-COVID. Viene presentato, inoltre, un kit di strumenti progettato per incoraggiare i giovani e le organizzazioni giovanili a sostenere e contribuire efficacemente allo sviluppo di politiche di educazione fisica di qualità. Offre principi generali per un sostegno politico di successo che possono essere adattati ai diversi contesti nazionali. Infine, un rapporto tecnico che include il background e le motivazioni del progetto, i risultati dei processi di revisione delle politiche nei quattro contesti dei paesi pilota, le lezioni apprese e una sintesi globale dei risultati. Il rapporto si conclude con una serie di raccomandazioni pratiche per arricchire e adattare il progetto a diversi contesti nazionali.
Per leggere l’articolo integrale, in lingua inglese, che presenta il progetto dell’Unesco clicca qui
Capita sempre più di frequente che nelle nostre scuole e nelle nostre città alcune ragazze e donne portino il velo. Questo indumento, che si presenta in diverse forme, viene associato comunemente alla religione islamica. Ma qual è la sua origine?
L’usanza di portare il velo, innanzitutto, non nasce contemporaneamente alla religione islamica ma era presente già prima nei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Come spiega l’antropologa Sara Hejazi, fin dall’antica Roma questo indumento era utilizzato dalle donne che appartenevano alle classi sociali più ricche e questa tradizione venne ripresa dalle donne appartenenti alla prima comunità fondata dal profeta Maometto. Nel Corano, quindi, non viene prescritto alle donne l’obbligo di indossare il velo ma sia alle donne sia agli uomini è richiesto di vestirsi in modo decoroso, mantenendo nascoste le parti del corpo considerate sacre.
Esistono molti tipi di velo ed ognuno è legato alle diverse tradizioni nazionali. Il più diffuso è sicuramente l’Hijab, che copre il capo e il collo ma lascia il viso scoperto. I più coprenti sono invece il Niqab, che lascia scoperti solo gli occhi e il Burqa, nel quale gli occhi sono coperti da una rete.
Perché le donne si velano il capo?
A questa domanda non c’è una risposta unica. Alcune donne scelgono liberamente di indossare il velo mentre ad altre è imposto dalla propria comunità o famiglia. Solitamente le ragazze iniziano a velarsi durante l’età dello sviluppo come manifestazione personale della propria fede.
Oggi le donne che portano il velo non sono più considerate una categoria privilegiata ma, al contrario, nel mondo occidentale sono spesso oggetto di discriminazione nei luoghi pubblici.
Per la rubrica di oggi, sempre tratta dal volume 1 del libro “Storie della Buonanotte per Bambine Ribelli” di Elena Favilli e Francesca Cavallo, parleremo di una super donna italiana: Lella Lombardi.
Un record imbattuto
Il 26 Marzo 1941 nacque in italia Maria Grazia Lombardi, che tutti presto decisero di chiamare Lella.
Lella aiutava sin da piccola il padre nelle consegne della carne, con il furgone di famiglia.
Il padre teneva il tempo, e Lella sfrecciava alla guida. In paese tutti la conoscevano, e sapevano quanto Lella andasse veloce.
A 18 anni Lella spese tutti i suoi risparmi per comprare una macchina da corsa usata e iniziare a gareggiare da professionista. Vinse il campionato di Formula 850, ma il suo obiettivo principale era uno solo: partecipare come pilota alla Formula Uno, pur essendo l’unica donna. Dopo il primo tentativo fallito, Lella, seguita da un bravo manager e supportata da uno sponsor, gareggiò al Gran Premio di Spagna, con la sua auto bianca con la bandiera italiana sul muso. Si classificò sesta, divenendo ufficialmente la prima donna al mondo classificatasi in una gara di Formula Uno. I tempi però non erano abbastanza maturi per far sì che una donna continuasse a gareggiare in Formula Uno, così Lella fu sostituita da un altro pilota, uomo. Nonostante tutto, Lella ha continuato a correre tutta la vita, e il suo record resta ancora oggi imbattuto.
L’esempio di Lella Lombardi ci mostra come, a dispetto di ciò che ancora oggi in tanti credono, una donna può decidere di intraprendere qualsiasi attività, e che la dicotomia uomo/donna nell’assegnazione dei mestieri, degli sport o di attività in generale, non è altro che un’imposizione di un’ideologia maschilista, che ha bisogno di essere ormai superata.
E’ proprio questo, tra altri obiettivi, che gli SDGs si propongono di fare supportando e promuovendo l’uguaglianza di genere, ed è ciò che anche tutti noi, nelle nostre azioni quotidiane, dobbiamo fare.
L’impegno Uisp per l’inclusione attraverso lo sport è proseguito anche in quest’anno di pandemia e sospensione dell’attività fisica e motoria: ecco le iniziative e i progetti condotti dall’Uisp nel 2020
Il razzismo è ancor oggi una delle tematiche più rilevanti nel panorama europeo e mondiale, per questo l’Uisp continua il suo impegno contro le discriminazioni razziste. Nell’ultimo anno il mondo intero è stato travolto dall’emergenza pandemica che ha messo in stand-by quasi tutte le attività motorie, oltre ad accentuare le disuguaglianze esistenti nella nostra società. Ma lo sport sociale che chiede pari diritti e dignità non ha rinunciato a far sentire la sua voce, così nell’ultimo anno l’Uisp ha ribadito il suo impegno per l’inclusione e contro ogni discriminazione.
L’Uisp è stata protagonista della lotta alle discriminazioni con il lancio dell’Osservatorio nazionale contro le discriminazioni nello sport, grazie al protocollo firmato con Unar-Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali e Lunaria.
Inoltre, non potendo scendere in campo come ogni anno con le attività dell’Almanacco delle iniziative antirazziste, l’associazione dello sportpertutti ha organizzato un momento di confronto e riflessione sui temi dell’inclusione attraverso lo sport in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, il 20 giugno 2020, con una diretta Facebook organizzata con Unhcr e Unar. Sono intervenuti al convegno denominato “Cronaca Antirazzista: il ruolo della narrazione nel contrasto alle descriminazioni”, Carlotta Sami, portavoce UNHCR – Italia; Triantafillos Loukarelis, direttore Unar; Vincenzo Manco, presidente Uisp; Alessandra Morelli, rappresentante Unhcr in Niger; Carlo Balestri, responsabile politiche internazionali Uisp; Luca Cardinalini, giornalista Rai. Inoltre, sono state presentate esperienze e buone pratiche di inclusione attraverso lo sport sul territorio, con collegamenti in diretta da varie città. GUARDA IL VIDEO DELLA DIRETTA
Dal 23 al 30 settembre l’Uisp ha reso le donne migranti protagoniste della Settimana europea dello sport, grazie al progetto europeo Spin Women, per cui sono stati realizzati sette video con cui raccontare il rapporto tra sport e inclusione nell’esperienza delle donne migranti, che spesso vivono una doppia discriminazione, di genere e razziale. CLICCA QUI PER LA PLAYLIST con le sette storie di Spin Women.
L’impegno di Uisp continua anche nel 2021
L’impegno Uispcontro le discriminazioni razziste prosegue anche nel nuovo anno: a marzo 2021 ha preso il via il progetto europeo Sentry Sport, di cui l’Uisp è capofila, cofinanziato dal Programma Erasmus+ dell’Unione Europea http://www.uisp.it/progetti/pagina/sentry-sport. Il progetto coinvolge, oltre all’Italia, la Danimarca, la Spagna, la Grecia, l’Austria e la Francia, impegnate a favorire l’emersione, la prevenzione e la mediazione del fenomeno discriminatorio attraverso lo sport.
Infatti, Sentry Sport nasce dall’esperienza del progetto nazionale Uisp SportAntenne, condotto tra il 2016 e il 2018 in 13 città italiane e ne rappresenta il naturale prosieguo ed ampliamento, con la riproposizione a livello europeo di una buona pratica attivata sul territorio nazionale.
Nel corso di primo anno verrà pianificato e strutturato il percorso formativo, rivolto ad operatori sportivi e dirigenti di sette città europee; successivamente partirà nei territori dei Paesi partner la sperimentazione del modello di Sportantenne: partiranno, quindi, le azioni di monitoraggio degli episodi di discriminazione e la mediazione sul territorio.
Ovviamente tutto il percorso progettuale risentirà dei necessari adattamenti legati al rischio pandemico: per il primo anno di attività la sostituzione delle attività in presenza con quelle a distanza non presenta problemi, si tratta infatti di pianificazione e inizio della formazione, che può essere svolta anche in videoconferenza. Per la seconda parte, che prevede lo sviluppo di centri sportivi sensibilizzati sul tema della discriminazioni, pronti a raccogliere le informazioni e le segnalazioni, si vedrà come gestirle nel corso dell’anno anche in base all’evoluzione della situazione sanitaria.
Difficoltà e aggiustamenti in corso d’opera anche per l’”Almanacco delle iniziative antirazziste” Uisp: si tratta di un calendario che raccoglie le tante proposte Uisp sul territorio per dire no al razzismo e alle discriminazioni. Una stagione di sport per l’inclusione che parte il 21 marzo, Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, copre l’estate e arriva fino a settembre, con tornei, manifestazioni, feste che promuovono lo sport antirazzista e un’idea di società aperta e accogliente.
Il programma delle iniziative non è ancora stato confermato per via dell’emergenza Coronavirus che ci costringe a stare in casa e quindi lascia in stand-by le attività sportive, ma speriamo di poter al più presto dare il via ad una nuova stagione di sport e antirazzismo sul campo.
Una giornata dedicata alla lotta contro ogni discriminazione, per una società più libera ed egualitaria
Domenica 21 marzo si terrà la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, una giornata quindi dedicata alla lotta contro ogni forma di pregiudizio e discriminazione legata al colore della pelle.
In questo articolo cercheremo di rispondere ad alcune domande che spesso ci poniamo, ma che non abbiamo il coraggio di fare ai grandi
Che cos’è la discriminazione razziale?
Per la legge italiana, la discriminazione razziale è qualsiasi “comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, la convinzione e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.” (art. 43 del D.lgs. n. 286/1998).
In parole più semplici, la discriminazione razziale è l’espressione del razzismo e comprende qualsiasi azione o comportamento che abbia l’intento di trattare in maniera diversa una persona in base al colore della propria pelle.
Perché è stata istituita questa giornata?
La Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale è stata istituita dalle Nazioni Unite nel 1966 ed è stata scelta la data del 21 marzo in ricordo del tristemente famoso massacro di Sharperville.
Il 21 marzo del 1960 la polizia sudafricana aprì il fuoco su un gruppo di manifestanti di colore nel sobborgo di Sharperville, una township non molto distante da Johannesburg. Le township erano delle aree urbane vicine alle grandi città, in cui abitavano esclusivamente cittadini non-bianchi. Questo episodio fu il più sanguinoso del periodo dell’apartheid in Sudafrica: i morti furono una settantina, mentre i feriti circa duecento!
L’apartheid era una politica estremistica di discriminazione razziale, istituita dal governo di etnia bianca della Repubblica Sudafrica nel 1948.
Questa politica obbligava i neri a vivere solamente in zone a loro riservate, toglieva loro ogni diritto civile e vietava le relazioni interraziali, cioè tra persone di razze diverse. I neri erano obbligati a portare sempre un documento di identità, che serviva per entrare nelle aree riservate ai bianchi. La politica dell’apartheid fu attuata con ogni mezzo disponibile, anche violento.
Furono molte le persone che si ribellarono a questa politica fortemente discriminatoria. Alcuni ribelli furono “fatti sparire”, altri finirono incarcerati e molti giustiziati. Il più famoso dei ribelli fu Nelson Mandela, che passò 27 anni in carcere e fu il primo presidente non bianco del Sudafrica (oltre che vincitore del premio Nobel per la pace nel 1993).
Perché è importante combattere la discriminazione razziale?
Il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione sono il fondamento dei Diritti Umani. L’art.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dichiara che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. E nell’art.2 ribadisce che “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.”
E’ fondamentale quindi che, nel nostro piccolo, rispettiamo questi diritti fondamentali. Nessun essere umano, nessuna razza o etnia è superiore ad un’altra.
Non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi. Ma abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi desideri base: vivere liberi in un mondo che ci rispetti per ciò che siamo. Esseri umani.
Stefania Ferrua
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Se vuoi fare un approfondimento su questi temi, vedi
Questo nuovo approfondimento della rubrica Discriminazioni quotidianeè dedicato a quattro giovani ragazze, Natalie Hampton, Sanah Jivani, Peyton Klein e Tori Taylor. Hanno qualcosa in comune:sono state vittime di bullismo o hanno assistito ad atti simili e sono riuscitea trasformare un’esperienza traumaticain un contributo positivo per le loro comunità.
Natalie Hampton ha 17 anni e ha ideato Sit With Us, un’applicazione che aiuta gli studenti e le studentesse a trovare compagni e compagne con cui passare la pausa pranzo. Lei stessa è stata vittima di bullismodurante il liceo e si è spesso trovata sola durante il momento del pranzo. La volontà di non far provare ad altri coetanei e coetanee la sua stessa sensazione si è trasformata in un progetto vincente, uno strumento molto utilizzato anche fuori dai confini americani.
Sanah Jivaniha subito atti di bullismo a causa della sua alopecia. Da una riflessione personale, Sanah ha deciso di reagire portando nella propria scuola un messaggio di positività e di accettazione delle proprie imperfezioni, raccontando la propria storia.Il suo atto di coraggio è stato di ispirazione per altri ragazzi e ragazze e Sanah è arrivata a parlare di sé anche al TedX Talks.
Global Minds Initiative è un programma di doposcuolaideato daPeyton Klein, che ha l’obiettivo di includere i ragazzi e le ragazze che parlano inglese come seconda lingua nell’ambiente scolastico. Dalla volontà di Peyton di coinvolgere un gruppo di studenti e studentesse spesso escluso e discriminato è nata un’associazione già attiva negli Stati Uniti e in Canada.
Tori Taylorè stata vittima di bullismo a 14 anni. La sua esperienza di sofferenza l’ha spinta a dedicare le sue energie ad aiutare altre vittime degli stessi comportamenti. Da questo desiderio è nato il programma Peer2Peer, un sistema di consulenzetramite il quale i giovani studenti e studentesse possono affidarsi ai compagni e compagne più grandi per consigli e necessità.
Il bullismo è un fenomeno purtroppo molto diffuso ma le storie di Natalie, Sanah, Peyton e Tori ci insegnano che si può combattere con iniziative positive che rendano la scuola e la società più accoglienti e inclusive.