Siamo tutti impegnati insieme a voi su differenti fronti nel contrasto della povertà educativa, nella lotta agli stereotipi e alla violenza di genere, nella promozione di percorsi di cittadinanza attiva, nel quadro dell’Agenda 2030. Oggi, come ci chiede l’interesse comune e nazionale, è priorità assicurare lo stare in casa e cercare insieme delle vie e strumenti alternativi alla presenza, per mantenere vivi gli obiettivi formativi e di socialità, sempre nell’ottica dell’interesse prioritario della tutela dei minori e delle loro famiglie.
Noi siamo in prima linea in questi giorni per capire come poter supportare le persone che quotidianamente collaborano con noi, perciò vi chiediamo 15 minuti del vostro prezioso tempo per rispondere al seguente questionario, per aiutarci ad ascoltare i vostri bisogni e quelli del contesto scolastico e prevedere eventuali azioni, anche in collaborazione con i partner che ci affiancano nel lavoro quotidiano.
Come vedrete, le domande riguarderanno aspetti per agire nel breve periodo, con misure di adattamento di alcune attività on-line (Ad esempio le missioni di agente0011), ma anche nel medio periodo, perché siamo consapevoli che in particolare in alcuni contesti più marginali, potrebbero emergere priorità altre rispetto alle azioni progettuali preventivate.
Un caloroso abbraccio da parte di tutto lo staff di agente0011! Noi ci siamo, anche se a distanza!
Per partecipare al questionario basta cliccare su questo link, e rispondere alle domande! Il questionario è aperto a tutti coloro che operano nelle scuole e nei contesti educativi, ma se sei il rappresentante di un team iscritto al portale puoi compilarlo come missione e ottenere 30 punti!! Basta indicarlo con la spunta apposita…cosa aspetti?
I minerali e i metalli, e in generale tutto il materiale estrattivo, giocano un ruolo centrale nella moderna economia globalizzata, poiché continuano e continueranno ad essere una delle principali fonte di materia prima per i processi industriali e la vita di tutti i giorni (ricordate la missione sui componenti minerari utilizzati per costruire gli smartphone?).
Proprio la centralità del materiale prodotto da questa settore, nonostante i grandi sforzi per rendere le filiere produttive sempre meno dipendenti da questo tipo di risorse, negli ultimi anni ha visto un incremento molto significativo, e ancora più netto negli ultimi dieci anni, e il trend si prospetta in crescita anche nel futuro. E vista la crescita costante della popolazione (si stima che saremo 8.5 miliardi entro il 2030..e quasi 10 miliardi nel 2050!), si stima che la crescita di questo mercato continuerà per venire incontro alle crescenti necessità delle persone.
Non solo, paradossalmente gli sforzi globali per l’adozione di tecnologie energetiche rinnovabili e pulite (comprese le auto elettriche) hanno addirittura accelerato il trend, dato che la produzione di energia pulita richiede un maggior utilizzo di minerali e metalli – per esempio, per la costruzione di batterie o accumulatori – rispetto alla produzione da fonti fossili.
Qual è quindi il problema? Il problema è l’impatto che questo settore industriale ha sull’ambiente, sugli ecosistemi e sulle comunità. Tuttavia non è detto che debba essere per forza così: l’industria mineraria ha infatti potenzialmente tutti gli strumenti per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Un recente report dell’International Resource Panel, un gruppo di scienziati esperti sui temi della gestione di risorse avviato nel 2007 proprio per costruire e condividere la conoscenza di questi argomenti, ha infatti lanciato una serie di suggerimenti su come migliorare le performance del settore estrattivo assicurando allo stesso tempo i più alti standard a livello sociale e ambientale. In altre parole, come continuare a fare il proprio lavoro contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030.
Uno dei contributi più significativi riguarda la proposta di introdurre di una “licenza di sviluppo sostenibile”. Di cosa si tratta? Le compagnie come quelle minerarie, il cui impatto sull’ambiente e sulle persone che lo abitano è sempre significativo, operano generalmente sotto quella che viene definita “licenza sociale” (Social License to operate). In pratica, oltre alle classiche autorizzazioni per poter svolgere questo tipo di attività ad alto impatto socio-ambientale, è richiesto che le grandi compagnie ottengano anche una specie di “consenso sociale”. Non si tratta di un accordo formale, ma della reputazione della società nell’ambito della propria responsabilità sociale, ovvero sulle politiche di gestione dell’azienda, dei rapporti di lavoro, dell’impatto -anche sociale- che essa ha sul territorio. In altre parole, una specie di “patentino di buona condotta” che è necessario poter dimostrare di possedere se si vuole condurre le operazioni.
La proposta dell’International Panel è quindi di superare questo modello con uno più avanzato, detto Licenza di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development License). In poche parole la proposta prevede un approccio molto più ampio, che tenga in considerazione e si mobiliti per contenere tutti le possibili ricadute negative sull’ambiente, la società, l’economia, individuando tutte le possibili occasioni per contribuire allo sviluppo sostenibile.
Insomma, se abbiamo così tanto bisogno dei minerali e dei metalli estratti dalle grandi compagnie estrattive, abbiamo altrettanto bisogno che il loro l’impatto negativo sia minimizzato e anche che esse si attivino concretamente per contribuire a raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030.
Le celebrazioni di quest’anno hanno messo in risalto le numerose forme in cui l’educazione rafforza le persone, protegge il pianeta, costruisce prosperità diffusa e alimenta la pace.
Ma se per molti avere il diritto, ma anche il dovere, di andare a scuola sembrerà scontato e a volte anche noioso, forse non tutti sanno che quello dell’istruzione è un diritto fondamentale ancora oggi negato a milioni di bambini e adolescenti in tutto il mondo. Immaginate quanti? Ben 258! È questa la cifra impressionante, calcolata dall’Onu, di bambini e ragazzi nel mondo che non frequentano la scuola: il 60% di questi, inoltre, non raggiunge competenze minime di lettura, comprensione del testo e calcolo: un fenomeno chiamato “crisi di apprendimento”.
I rifugiati, i migranti e le persone con disabilità devono affrontare le sfide maggiori nell’accesso all’istruzione. E anche se negli ultimi 20 anni i Paesi più poveri hanno compiuto enormi progressi nel portare i bambini in classe, i fondi dedicati all’istruzione sono ancora scarsi.
Tra i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, il Goal 4 ci ricorda l’importanza di assicurare un’istruzione di qualità, equa ed inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti.
L’ASviS (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) contribuisce al raggiungimento di questo target realizzando, insieme al Ministero dell’istruzione, la quarta edizione del concorso nazionale “Facciamo 17 goal. Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. Obiettivo del progetto è promuovere, attraverso la diffusione dell’Agenda 2030, l’educazione allo sviluppo sostenibile e agli stili di vita rispettosi dell’ambiente, dei diritti umani, dell’uguaglianza tra i popoli e le persone, ma anche una cultura di pace e di non violenza, la cittadinanza globale come strumento di lotta al cambiamento climatico, l’innovazione sostenibile e la lotta alla povertà.
Anche l’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni unite che si occupa di tutelare la cultura e il patrimonio, porta avanti un progetto nelle scuole chiamato “Edu.” È un programma nazionale di educazione focalizzato sulle tematiche dell’educazione, della comunicazione e informazione, delle scienze naturali, delle scienze umane e sociali e della cultura e che nell’edizione 2020 si è focalizzato sull’Agenda 2030.
Per scoprirne di più leggi gli articoli completi qui.
Lo abbiamo letto già diverse volte negli articoli passati, il Bangladesh è una delle frontiere più delicate quando si parla di lotta al cambiamento climatico. Sia per la conformazione del paese che per la sua posizione, infatti, sono moltissime le sfide che il Bangladesh si troverà ad affrontare. Una di queste è conseguenza diretta dell’innalzamento delle acque del mare, che comporta salinizzazione del terreno, ma anche contaminazione delle falde acquifere e altre fonti di acqua dolce. Il risultato? Migliaia se non milioni di persone senza accesso all’acqua dolce, per bere, lavarsi o coltivare i campi.
Nel quadro di questa situazione forse qualche soluzione c’è e arriva direttamente dal..sole! Sarà infatti la nostra stella a fornire l’energia necessaria ad alimentare oltre mille nuove unità di desalinizzazione che verranno installate in oltre 16 distretti costieri. Il progetto, finanziato dal Governo del Bangladesh con oltre 5 milioni di dollari e realizzato da un’azienda australiana, dovrebbe riuscire a garantire accesso all’acqua dolce e pulita (uno degli obiettivi principali dell’Agenda 2030) per circa 30mila persone.
Sebbene non sia un punto di svolta per l’emergenza clima in Bangladesh, non bisogna dimenticare che decine di migliaia di persone beneficeranno, con un costo relativamente basso (meno di 170$ per persona), di acqua pulita e a impatto zero, considerando che il motore è alimentato dall’energia solare.
Scopri come funziona la desalinizzazione a energia solare guardando il video sotto
Avrete sicuramente sentito parlare – o magari avete anche partecipato – a qualche sciopero del venerdì per il clima. Quello che forse non sapete è che la tradizione di compiere un’azione durante l’ultimo giorno della settimana lavorativa non riguarda solo il cambiamento climatico..scopriamone di più!
Changurufaru Chibesa, o Changu come la chiamano tutti e tutte, è un’avvocatessa di Lusaka, Zambia. Il suo legame con la lotta femminista è iniziato quando, durante una lezione all’Università, un insegnante sostenne che nel matrimonio “non esiste lo stupro”. Sentire queste parole la colpì davvero molto, considerando anche che erano state pronunciate da un insegnante. Mossa dalla volontà di approfondire ulteriormente il tema, e di come questo venisse affrontato dalla società e dalla legge zambiana, Changu ha finito per dedicare la propria tesi di laurea proprio al tema dello stupro nel matrimonio in Zambia.
Ma approfondire il tema in una tesi non le poteva bastare, e nello stesso periodo Changu entra in contatto con la Global Platform di ActionAid Zambia. In cerca di supporto per la propria causa, Changu prende parte a un training sulla leadeship femminista. La formazione le ha dato la possibilità di incontrare uomini e donne con storie alle spalle diverse dalla sua, che l’hanno aiutata fornendole nuove prospettive da cui analizzare e affrontare il problema che le è così a cuore. Tutto questo le ha fatto rinascere una grande passione e voglia di mobilitarsi per la causa del femminismo, soprattutto per essere resa conto che la sua battaglia era in realtà una battaglia condivisa da molti!
Proprio dopo questa esperienza è nata in Changu la voglia di fare qualcosa di più. Da quel momento ha lanciato l’iniziativa Feminist Fridays, venerdì femministi. Il primo è stato nel marzo del 2017, ospitato dalla Global Platform di Lusaka, e tutt’ora continuano. L’importanza di questa iniziativa sta nell’essere la prima del suo genere in Zambia, totalmente dedicata al femminismo, uno spazio in cui donne e uomini possono confrontarsi sul tema ed elaborare strategie per inserire la prospettiva di genere e femminista in diverse sfere della società.
Certo, non è stato facile. Soprattutto all’inizio la partecipazione ha visto alti e bassi, anche perchè molti non ne hanno capito lo scopo. Ma piano piano, con costanza e creatività, gli incontri hanno cominciato a vedere una partecipazione sempre maggiore, soprattutto di uomini, che era uno degli obiettivi di partenza. La lotta, o anche solo la riflessione, femminista riguarda tutti!
Da allora i Feminist Fridays si tengono ogni ultimo venerdì del mese, con l’ambizioso obiettivo di riuscire a inserire un giorno i temi del femminismo e della parità di genere anche nell’agenda politica zambiana.
Stiamo tutti affrontando un momento non semplice: la diffusione del Coronavirus ha reso necessaria la chiusura in via precauzionale di tutte le scuole, e anche molti membri del team che si occupa dello sviluppo e del mantenimento del portale stanno lavorando da casa.
E purtroppo, in considerazione delle recenti disposizioni del Governo Italiano e del Ministero dell’Istruzione sull’emergenza da COVID-19, la scadenza del concorso di Agente00011 “La nostra comunità domani” è prorogata a data da destinarsi. Comunicheremo le nuove date appena sarà possibile.
Ma la nostra missione è troppo importanteper potersi fermare e per questo abbiamo pensato di lanciare un messaggio di solidarietà a tutti gli agenti d’Italia! Anche se da casa, è necessario impegnarsi per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile quindi vogliamo rassicurarvi che LE MISSIONI E LE NEWS CONTINUERANNO AD ESSERE PUBBLICATEe vi invitiamo ad affrontarle comunque!
Ovviamente è essenziale tenere un comportamento responsabile e rispettare le linee guida espresse dal Governo e da chi è esperto in materia, quindi vi invitiamo a osservarle anche nel completamento delle missioni. Grazie alla didattica digitale avete numerosi strumenti online per collaborare da casa, utilizzando il computer o lo smartphone. Certo, collaborare dal vivo è molto più divertente! Ma siamo sicuri che presto potremo tornare tutti alla normalità, nel frattempo…AGENTE NON SI FERMA!
Credi che la moda non abbia niente a che vedere con i cambiamenti climatici? Forse dovresti riconsiderare la tua posizione..ti spiego perchè!
Il settore della moda è, già di per sé, molto poco sostenibile. Pensate, per esempio, che per produrre una singola t-shirt sono necessari 2700 litri di acqua, il che equivale a circa 15mila litri per ogni chilogrammo di cotone lavorato. Questo significa che ogni anno vengono utilizzati milioni e milioni di litri d’acqua per produrre i vestiti che compriamo tutti giorni nelle grandi catene di vestiario. Certo, bisognerà pur vestirsi si potrà obiettare. Anche questo è vero, ma proviamo a immaginare quanti abiti compriamo ogni anno senza averne in realtà bisogno, solo perché spesso siamo ingolositi dai prezzi bassi o dalla voglia di avere un nuovo capo.
Sì, perché le t-shirt sono solo un esempio. Prendiamo un altro capo estremamente diffuso: i jeans. Per produrre un paio di jeans si emette una quantità di gas serra pari a quella emessa da una macchina in oltre 100 km di guida! Non è difficile immaginare quindi la quantità di CO2 emessa ogni anno dall’intera filiera mondiale, e in effetti uno studio del 2018 ha calcolato che l’industria dell’abbigliamento è responsabile di quasi il 10% delle emissioni.
Tuttavia parlando di questo tema non si può ignorare un altro aspetto: che fine fanno i vestiti una volta che abbiamo smesso di utilizzarli? Oltre al fatto che la maggior parte dei tessuti non è biodegradabile, con la conseguenza che i nostri vestiti contribuiscono ad aumentare la massa di rifiuti che giocano un ruolo non indifferente nella produzione di gas serra e di inquinamento dei suoli, c’è un altro aspetto da considerare. Mentre riempiamo la terra di rifiuti, infatti, dovremmo anche pensare agli effetti sugli Oceani. Il largo utilizzo di poliestere nella produzione di abiti fa sì che lo stesso rilasci microplastiche che si disperdono nelle acque insieme alle fibre non biodegradabili.
E quindi, cosa si dovrebbe fare per far fronte a tutto questo?
Alcune ricerche suggeriscono che uno delle principali cause dell’aumento nel consumo di abiti (oggi ne possediamo il 40% in più rispetto a qualche anno fa) sia proprio nell’attitudine delle grande aziende di fast-fashion di proporre un numero di collezioni troppo elevato. Una recente ricerca ci dice che da una media di due collezioni per anno dei primi anni 2000, oggi vediamo una media di 24 collezioni proposte ogni anno dai diversi brand.
Si potrebbe partire proprio da questo dato, incoraggiando le aziende e i brand a invertire il trend di consumo dei propri clienti, rallentando il ciclo di consumo degli abiti, e iniziando a produrre in modo più sostenibile e con più rispetto dell’ambiente.
Tra pochi giorni sarà la festa internazionale dei diritti delle donne, istituita dalle Nazioni unite nel 1975 con l’obiettivo di celebrare i progressi in ambito economico, politico e culturale raggiunti dalle donne in tutto il mondo.
Nell’Agenda 2030 il tema della parità dei diritti tra uomini e donne è riportato nel Goal 5 che punta a raggiungere la parità di genere e l’empowerment (maggiore forza, autostima e consapevolezza) di tutte le donne e le ragazze nel mondo. Nel 2019 le Nazioni unite hanno presentato “The gender snapshot 2019”, una ricerca che analizza la situazione della parità di genere rispetto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Dalla ricerca vediamo che, per ogni obiettivo, le donne risultano sempre svantaggiate rispetto agli uomini e che la disuguaglianza è dovuta a diversi fattori come lo status sociale, la collocazione geografica, la ricchezza e l’etnia.
Facciamo alcuni esempi: le donne, svolgendo attività di cura e lavori domestici non retribuiti, hanno meno tempo disponibile per studiare e formarsi (Goal 4) e quindi anche meno opportunità di ottenere un lavoro dignitoso (Goal 8), oltre al fatto che, stando ai dati del 2018, le donne dai 25 ai 54 anni hanno più del doppio delle probabilità di essere disoccupate perché il matrimonio e la gravidanza spesso ne rendono più difficoltosa l’assunzione. Rispetto al Goal 3 (Salute e benessere) nel 2017, quasi 300mila donne sono morte per complicazioni legate alla gravidanza e al parto, un fenomeno particolarmente grave nelle aree rurali come ad esempio in Colombia, dove oltre un terzo (33,4%) delle donne indigene che vivono in famiglie rurali povere partorisce senza assistenza sanitaria.
Ma non finisce qui! In molti Paesi poveri, le disuguaglianze di genere riguardano anche l’accesso ai beni di primissima necessità come l’acqua pulita (Goal 6). Infatti dove l’acqua corrente non è disponibile a casa, le donne sono le principali fornitrici di acqua per uso domestico e per ottenerla esse spesso percorrono lunghe distanze. Allo stesso modo, la deforestazione aumenta il tempo che le donne impiegano a raccogliere legna da ardere. In Zambia, le donne trascorrono in media 800 ore all’anno per quel compito!
Infine le donne sono vittime di numerose forme di violenza, spesso con atti impuniti, come lo stupro, il femminicidio, la tratta, lo sfruttamento sessuale, le forme mediatiche di violenza fino alle mutilazioni genitali femminili.
Per scoprirne di più leggi l’articolo completo qui
Video pubblicato in occasione della 20esima giornata mondiale contro la violenza sulle donne (11/2019)
Qualche giorno fa si è tenuto a San Diego, in California, un convegno internazionale sul tema delle scienze oceaniche, che purtroppo ha mostrato dati e notizie che è importante considerare. Secondo quando detto dagli esperti, i cambiamenti climatici che stanno interessando i fondali marini potrebbero causare la totale scomparsa delle barriere coralline nel giro di meno di un secolo. Le principali cause sono l’aumento delle temperature e l’acidificazione delle acque. Quest’ultimo fenomeno, in particolare, è dovuto all’aumento dell’anidride carbonica nelle acque oceaniche, che la assorbono da quella in eccesso dall’atmosfera trasformandola in acido carbonico.
Il dato più preoccupante è però quello legato alle dinamiche temporali. Non bisognerà infatti attendere fino al 2100 per vedere i primi effetti di questo disastro ambientale, perché si ritiene che avanti di questo passo il 70-90% di questi ecosistemi non sopravviverà già nei prossimi 25 anni.
Un’altro fenomeno che è stato messo in luce durante il convegno è stato quello che viene definito “sbiancamento”, o bleaching in inglese. Forse saprete che molti coralli sono colorati, e questo fenomeno è dovuto alla presenza di alcune alghe, che vivono simbioticamente all’interno dei coralli stessi e che danno loro il colore. Purtroppo, a causa dell’acidificazione delle acque e soprattutto all’aumento della temperatura, i coralli sono posti sotto stress e reagiscono liberandosi delle alghe: è così che si ottengono coralli bianchi e opachi, caratteristiche che presagiscono la sofferenza dell’organismo e maggiore predisposizione alla morte.
Per cercare di far fronte a questo disastro si sta provando a trapiantare coralli vivi, creati in laboratorio, all’interno delle barriere coralline danneggiate per provare e riattivare la proliferazione. Purtroppo questa tecnica sta dando, per il momento, risultati non troppo incoraggianti, in particolare per la minore resistenza di questi coralli nell’ambiente oceanico.
Secondo gli esperti, nel 2100 i pochi luoghi dove ancora potranno proliferare i coralli saranno alcune parti della California del Sud e il Mar rosso, rimanendo comunque habitat a rischio.
Abbiamo parlato qualche settimana fa delle popolazioni indigene e del ruolo, troppo spesso sottovalutato, che le loro conoscenze potrebbero avere nel progettare soluzioni sostenibili per l’ambiente. Recentemente è stato pubblicato un rapporto dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro (OIL) che mette in chiaro come le popolazioni indigene siano escluse da un futuro sostenibile e florido anche sul piano del lavoro. Il rapporto, in particolare, sottolinea che queste popolazioni sono quelle che più spesso si trovano in condizioni di povertà, con picchi per quanto riguarda le donne che hanno, rispetto agli uomini, probabilità molto più basse di concludere gli studi di base.
Lo studio evidenzia che queste popolazioni hanno tre volte la probabilità di trovarsi in condizioni di estrema povertà rispetto agli altri: quando si parla di povertà estrema, pensate, si intende vivere con meno di 1,90 dollari al giorno!
Troppo spesso ci si dimentica di queste persone, e troppo spesso immaginiamo che i problemi affliggano un piccolissima parte della popolazione. Ma non è così. Pensate che si calcola che nel mondo le comunità indigene siano circa 5mila, equivalenti a oltre 476 milioni di persone..il 6% delle popolazione di tutto il mondo!
Uno degli aspetti fondamentali rispetto al rischio di esclusione di queste popolazioni è dato dalla condizione delle donne all’interno delle comunità. Se la situazione è già complessa in partenza per tutti, non si può non tenere in conto che le donne hanno possibilità ancora più basse degli uomini di poter completare l’istruzione di base, e hanno ancora maggiori probabilità di trovarsi in condizioni di indigenza estrema. Per fare un esempio, pensate che solo un quarto delle donne indigene ha un lavoro retribuito, contro quasi la metà alle donne non indigene.
Questi sono alcuni dati, estrapolati dallo studio, con i quali si vuole mettere in luce le profonde disuguaglianze che le popolazioni indigene della terra si trovano ad affrontare ogni giorno. Conoscere queste situazioni è molto importante, ma lo è anche agire e attivarsi concretamente per tutelare e cambiare le vite di queste persone.
Ad oggi, tuttavia, esiste un solo trattato internazionale che si propone di salvaguardare i diritti delle popolazioni indigene e tribali (Convenzione n. 169 del 1989) ma è stato ratificato solo da 23 dei 189 paesi che fanno parte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Ciò significa che solo il 15% di quel quasi mezzo miliardo di persone vive in paesi che riconoscono il trattato e ne mettono in pratica le linee guida. Ancora troppo, troppo poco per poter sconfiggere davvero le disuguaglianze globali.