La Nuova Zelanda vuole essere un paese “smoke-free” entro il 2025

La Nuova Zelanda è il primo paese a mettere in atto delle misure concrete per provare a diventare il primo paese “smoke free” entro il 2025. E’ questo infatti l’obiettivo dichiarato dal Ministro della Salute in occasione del lancio del “SmokeFree Action Plan 2025” lo scorso 9 dicembre.

Anche se in Nuova Zelanda l’85% della popolazione è non fumatrice, sono tra i 4500 e i 5000 le persone che ogni anno nel paese muoiono per cause legate al consumo di tabacco o al fumo passivo. Si tratta di 12-13 persone ogni giorno, in un paese che ne conta appena 5 milioni.

Nel paese, in particolare, il consumo di questa sostanza nociva è particolarmente diffuso tra la popolazione indigena di etnia Māori, come emerso da uno studio commissionato dalla Māori Affairs Committee (“Commissione per gli Affari Māori”) nel 2010. Il rapporto, infatti, ha evidenziato come non solo il consumo di tabacco negli anni sia aumentato tra le persone di etnia Māori e di altre etnie del Pacifico, ma anche che le donne Maori hanno uno dei tassi di cancro al polmone più alti del mondo. Non stupisce, se pensiamo che le donne māori coprono da sole circa il 30% del consumo di tabacco al giorno del paese.

E proprio a partire da questo studio si è arrivati alla proposta accolta dal Governo lo scorso mese. A  seguito della pubblicazione dello studio, infatti, la Commissione ha richiesto formalmente al Governo di adoperarsi per rimuovere il tabacco dal futuro del proprio paese, “per proteggere la cultura Maori in favore delle future generazioni”. Una delle conseguenza cui si pensa meno spesso rispetto ai rischi del tabacco è, infatti, la perdita di trasmissione della cultura e delle tradizioni dovuta alla scomparsa prematura delle fasce adulte e anziane della popolazione.

A seguito della proposta e dopo una serie di consultazioni, il Governo neozelandese ha accolto l’istanza e ha varato il proprio ambizioso piano. Cosa prevede? Beh, è il caso di dire che il Governo ha scelto coerentemente di prendere misure molto serie: non solo implementerà misure che renderanno più costoso e meno “semplice” fumare (oltre all’aumento del costo del tabacco, già di per sè molto alto in Nuova Zelanda, saranno varate molte aree no-smoking e diminuito il numero di negozi in cui è possibile acquistarle, e si dovrà anche incidere sui livelli di nicotina e altre sostanze nocive nei prodotti), ma ha intenzione di incentivare la creazione della prima generazione “smoking-free”.

Sì, perchè a partire da quest’anno la vendita di prodotti legati al consumo di tabacco sarà completamente vietata alle persone nate a partire dal 2008. L’obiettivo, ambizioso, è di far sì che le giovani generazioni non inizino proprio a fumare, così da impedire la diffusione di questa malsana abitudine e rafforzare le possibilità che nei prossimi anni il consumo di tabacco resti solo un lontano ricordo.

 

La Giornata Internazionale per i diritti dei e delle migranti: 18 dicembre

Domani si celebrerà la Giornata Internazionale per i diritti dei e delle migranti, che quest’anno segna anche il 70esimo anniversario della  fondazione dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OMI, o IOM, International Organization for Migration), avvenuta a Bruxelles nel 1951.

La Giornata fu istituita ufficialmente nel 2000 dalle Nazioni Unite, e venne scelta simbolicamente la data del 18 dicembre che dieci anni prima, nel 1990, aveva visto l’adozione della risoluzione sulla Convenzione Internazionale per la protezione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. Il senso di questa giornata è quello di riconoscere il contributo dato da milioni di migranti alle economie dei loro paesi d’accoglienza e d’origine e promuovere il rispetto dei loro diritti umani fondamentali.

Nonostante negli ultimi anni sia stato stigmatizzato, il fenomeno migratorio caratterizza l’umanità sin dall’alba dei tempi. Da sempre le persone si spostano in cerca di lavoro o di opportunità economiche, per raggiungere la famiglia oppure per studiare. Purtroppo spesso le persone sono forzate a spostarsi per sfuggire a conflitti, persecuzioni, terrorismo o violazioni dei diritti umani. Altri ancora si spostano in risposta agli effetti negativi del cambiamento climatico, dei disastri naturali o di altri fattori ambientali.

Come abbiamo visto sono moltissime le motivazioni che spingono donne e uomini a lasciare la loro casa, il loro paese e i loro affetti per mettersi in salvo e cominciare una nuova vita. A volte si tratta spostamenti volontari, ma spesso sono invece forzati da fattori come l’aumento della portata e della frequenza dei disastri, delle sfide economiche e della povertà estrema o dei conflitti.

Secondo il  IOM World Migration Report 2020 oggi più che mai ci sono più persone che vivono fuori dai confini entro cui sono nati. Circa 281 milioni di persone sono stati migranti internazionali nel 2020, rappresentando il 3,6% della popolazione globale. Pensate che erano il 2,8% nel 2000 e il 2,3% nel 1980. L’inasprirsi delle condizioni che spingono le persone a mettersi in viaggio influenzeranno sempre di più le dimensioni della migrazione in futuro, e sarà fondamentale rafforzare le strategie e le politiche che i paesi dovranno sviluppare per valorizzare il potenziale della migrazione, garantendo al contempo la protezione dei diritti umani fondamentali delle persone migranti.

 

Il tema scelto per la Giornata Internazionale del 2021 è valorizzare il potenziale della mobilità umana

I migranti contribuiscono infatti con le loro conoscenze, reti e competenze a costruire comunità più forti e resilienti. Il panorama sociale ed economico globale può essere modellato attraverso decisioni di impatto per affrontare le sfide e le opportunità presentate dalla mobilità globale e dalle persone in movimento.

L’Agenda 2030 ha riconosciuto, per la prima volta, anche il contributo della migrazione allo sviluppo sostenibile. 11 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) contengono obiettivi e indicatori relativi alla migrazione o alla mobilità. Il principio fondamentale dell’Agenda è quello di “non lasciare indietro nessuno”, nemmeno i migranti.

Il riferimento centrale degli SDGs alla migrazione è fatto nell’obiettivo 10.7: facilitare una migrazione ordinata, sicura, regolare e responsabile e la mobilità delle persone, anche attraverso l’attuazione di politiche migratorie pianificate e ben gestite. Altri obiettivi direttamente legati alla migrazione menzionano il traffico di esseri umani, le rimesse, la mobilità internazionale degli studenti e altro ancora. Inoltre, la migrazione è indirettamente rilevante per molti altri obiettivi trasversali.

Fonti originali:

Per approfondire:

 

 

10 dicembre: la Giornata Mondiale dei Diritti Umani

Oggi è la Giornata Mondiale dei Diritti Umani.

Come data della celebrazione è stata scelta quella dell’adozione da parte delle Nazione Unite, proprio il 10 Dicembre del 1948, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un documento che riguarda tutta l’umanità. Pochi lo sanno ma i diritti umani hanno una storia antica: i primi riferimenti a dei diritti di libertà e uguaglianza sono state scritti su una tavoletta d’argilla da Ciro “Il Grande”, il primo re di Persia nel 539 A.C.  

La Dichiarazione Universale dei diritti umani contiene 30 articoli che costituiscono una bussola per costruire un mondo più giusto ed equo. La Dichiarazione tocca le questioni fondamentali della libertà e dell’uguaglianza in tutte le sue forme ed espressioni: dal diritto alla vita e la libertà personale, al diritto di spostarsi all’interno del proprio paese, al diritto alla privacy, allo svago e il tempo libero, la lavoro e quant’altro.  

Insieme a questa dichiarazione negli anni sono state adottate dagli organismi internazionali altre convenzioni o dichiarazioni quali la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), la “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna” (1979), la “Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989) o più recente la “Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni” (2008), ma tutte fanno riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.  

La Dichiarazione ha garantito a molte persone un sostanziale miglioramento della propria vita, anche se ancora troppe rimangono escluse dal godere completamente dei diritti sanciti dalla dichiarazione.  

Negli anni sono sorte numerose organizzazioni, come Human Rights Watch o Amnesty International, che hanno fatto della difesa dei diritti umani la propria missione, ma sono tante le persone che si sono battute e si battono costantemente o quotidianamente perché vengano rispettati, difesi e promossi. Molti di questi li conosciamo o ne abbiamo sentito parlare: sono stati Gandhi, Mandela, Martin Luther King; altri sono meno conosciuti o quasi sconosciuti come Malala Yousafzai, Nadia Murad, Alexya Salvador, Tran Minh Nhat (https://www.humanrightscareers.com/issues/human-rights-activists/). Persone che si battono per la libertà di stampa, per i diritti delle donne, delle persone LGBTQ+ o contro la tratta di essere umani.  Per alcuni e alcune di queste mobilitarsi è anche rischioso o mortale, come per i 331 difensori dei diritti umani uccisi nel 2020 (vedi Rapporto 2020 di Front Line Defenders), 228 dei quali lottava per i diritti dell’ambiente, della terra e delle popolazioni indigene.  

In generale, venendo alla situazione oggi, la pandemia ha aggravato le diseguaglianze già esistenti, tra cui quelle relative all’accesso alle cure sanitarie, al cibo, la perdita di posti di lavoro, la mancanza di alloggio adeguato, di accesso all’educazione e al diritto di parola.

Tra le categorie maggiormente colpite, secondo il rapporto 2020/2021 di Amnesty International, troviamo le persone migranti, richiedenti asilo e rifugiatə esclusi dai servizi essenziali o abbandonati a sé stessə a causa della chiusura delle frontiere. Sempre secondo il rapporto, sono aumentati i casi di violenze di genere e violenze domestiche con una minor possibilità di avere accesso a misure di protezione e sostegno. In molti paesi la pandemia è stata sfruttata come scusa per limitare le libertà di espressione e di stampa.  

E’ quindi quanto mai importante rimanere attenti, in particolare nei momenti più complessi, per difendere quanto diamo già per acquisito (almeno per una piccola parte di mondo), ma soprattutto continuare a promuovere e lottare perché l’applicazione dei diritti umani diventi davvero universale.

Parafrasando Che Guevara: “Siate sempre capaci di sentire, nel più profondo qualsiasi violazione dei diritti umani universali, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo”.

“Costruire Futuro, Insieme!”

Fondazione CDP con noi contro disuguaglianze educative e dispersione scolastica, anche sul portale Agente0011! 

Lanciamo oggi, 1° dicembre, “Costruire Futuro, Insieme” con Fondazione Cassa Depositi e Prestiti, un progetto articolato attraverso percorsi formativi e di cittadinanza attiva, mirati a coinvolgere docenti, educatori, genitori, studenti e giovani in attività curriculari ed extracurriculari. I minori e le famiglie, infatti, sono tra i soggetti più colpiti dall’emergenza sanitaria da Covid-19, con ripercussioni psicologiche, educative e materiali.

L’obiettivo è di coinvolgere 500 docenti ed educatori e 9.000 giovani tra gli 11 ed i 19 anni, che avranno l’opportunità di sviluppare e rafforzare le proprie competenze digitali e personali attraverso attività di cittadinanza attiva e percorsi formativi ad hoc.

 

L’abbandono scolastico in Italia

L’abbandono scolastico nel nostro Paese è un fenomeno sempre più allarmante e gli ultimi dati  ISTAT lo dimostrano. Nel 2020, l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale è stato dell’11,0% nel Nord, 11,5% nel Centro e 16,3% nel Sud-Italia. Le regioni che registrano le maggiori incidenze di abbandoni sono Sicilia, Campania, Calabria e Puglia (19,4%, 17,3%, 16,6% e 15,6% rispettivamente).

Noi di ActionAid insieme a Fondazione CDP abbiamo quindi deciso di focalizzare il progetto “Costruire Futuro, insieme!” su sei aree metropolitane del Centro-Sud: RomaSiracusaReggio CalabriaBariNapoli e Palermo. In ciascuna area territoriale l’intervento è realizzato in collaborazione con un istituto scolastico – come polo centrale di sviluppo – assieme ad una rete di istituti e operatori del pubblico e del privato sociale.

 

Gli strumenti del progetto

Tra gli strumenti messi a disposizione per approfondire i temi della cittadinanza attiva, delle diseguaglianze e dell’educazione civica, il nostro portale, Agente 0011 – già operativo dal 2015, con 5.000 visitatori e 200 gruppi classe tra docenti, educatori, studenti o giovani anche al di fuori del contesto scolastico – punta a coinvolgere i giovani, motivandoli ad acquisire specifiche competenze a servizio della società anche attraverso la tecnologia immersiva di un serious game (un gioco progettato a fini educativi) dedicato al progetto: “InclusiCity”.

Un ulteriore strumento chiave del progetto è Radio Kivuli – la nostra webradio – che darà voce a tutti i protagonisti dell’iniziativa, grazie a laboratori ad hoc sulla metodologia della radio e la creazione di quattro podcast dedicati.

Il progetto prevede inoltre una collaborazione con la Fondazione Milan, la public charity legata al più ampio contesto di Responsabilità e Sostenibilità del Gruppo AC Milan. L’iniziativa prevede una giornata-evento nelle città di Siracusa, Reggio Calabria e Roma dove allenatori e educatori di Fondazione Milan proporranno momenti educativi e sportivi in cui saranno coinvolti studenti e docenti.

 

Il volontariato di competenza

Infine, è previsto un piano di azioni di volontariato di competenza promosso da Fondazione Cassa Depositi e Prestiti per coinvolgere i dipendenti del Gruppo CDP in attività di tutoraggio e orientamento rivolte agli studenti del progetto su un ampio spettro di temi, come ad esempio la sostenibilità, l’innovazione e il digitale.

“Povertà, disuguaglianza ed esclusione incidono sulla capacità dei giovani di prendere parte alla vita delle loro comunità. Con il progetto “Costruire futuro, Insieme” proveremo a spezzare questo circolo, creando le condizioni affinché tanti ragazzi e tante ragazze possano ricostruire fiducia e motivazione in sé stessi e incontrare concrete opportunità di crescita, tornando in questo modo ad essere protagonisti del loro futuro”, Katia Scannavini, nostra Vicesegretaria Generale.

“L’abbandono scolastico e la povertà educativa sono due fenomeni che compromettono il futuro di una significativa parte dei giovani del nostro Paese, a cui non può e non deve essere negata l’opportunità di accesso a percorsi di formazione che li aiutino a crescere e ad esprimere le loro potenzialità – ha commentato il Presidente di Fondazione CDP Giovanni Gorno Tempini. Fondazione CDP è impegnata, e lo sarà con decisione anche nei prossimi anni, nel favorire la concreta realizzazione di progetti a sostegno del capitale umano, perché i settori dell’educazione e della formazione siano alla base di un armonico progetto di rilancio con ricadute positive sul sistema Paese, all’insegna dell’inclusine, della competenza, dell’equità e, soprattutto, dell’attenzione per le giovani generazioni.”

BEST TEAM OF THE MONTH: novembre 2021!

Care e cari agenti,

il primo di mese di challenge è appena terminato e possiamo finalmente svelare i nomi dei team vincitori.

Congratulazioni invece ai team che sono riusciti ad aggiudicarsi il primo posto nelle relative categorie. Scopriamoli insieme!

 

SCUOLA:

  1. Categoria 5-10 anni: Salvatori della Terra, di Novara (NO)
  2. Categoria 11-13 anni: Obiettivi Futuri, di Pinerolo (TO) e Planet Sons, di Lauria (PZ) – pari merito
  3. Categoria 14-19 anni: Ad Maiora et Meliora, di Siracusa (SR)

ENTI INFORMALI:

  1. Categoria 5-10 anni: Associazione Sportiva, di Melito Porto Salvo (RC)
  2. Categoria 11-13 anni: San Giuseppe, di Melito Porto Salvo (RC)
  3. Categoria 14-19 anni: —

Potete consultare la classifica definitiva sul portale, attraverso la pagina personale del vostro team. Ricordiamo che si aggiudica il titolo di “Best Team of the Month” il team con più punti che non ha ancora vinto il titolo. La classifica generale sarà tenuta in considerazione per decretare i “Best Team of the Year” alla fine della challenge.

Ancora congratulazioni ai team che hanno raggiunto la vetta per questo mese, e un grande in bocca al lupo a tutti gli altri che riusciranno a farlo nelle prossime settimane.

Earth Overshoot Day: abbiamo finito le risorse del pianeta 4 mesi fa

Oggi sono esattamente 4 mesi che le risorse naturali sul nostro pianeta sono esaurite per il 2021. Tanto è infatti passato dal Earth Overshoot Day la giornata, caduta quest’anno il 29 luglio, che richiama l’attenzione sul tema del sovra-sfruttamento delle risorse: a partire da quella data, l’umanità inizia a consumare più risorse di quante il nostro Pianeta sia in grado di produrre e riassorbire.

Ma facciamo un passo indietro. Per comprendere la portata della giornata è bene riprendere il concetto di Impronta Ecologica (ecological footprint). Come forse saprete – ne avevamo già parlato qui – si tratta di un indice statistico che misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra che sono necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti.

Facciamo un esempio pratico. Se nel nostro giardino ci sono 100 alberi e per scaldare la nostra casa ne tagliamo uno al giorno, nel giro di poco più di tre mesi avremo finito la nostra riserva di alberi. Seguendo l’esempio, in questo caso l’impronta ecologica del nostro consumo è di circa 3 volte superiore alla nostra disponibilità (ovvero il nostro fabbisogno annuale equivale a 365 alberi a fronte di una disponibilità di solo 100).

Portando questo esempio su scala globale, possiamo provare a comprendere il senso della misurazione dell’impronta ecologica. Quello che la Giornata del sovra-sfruttamento della Terra rappresenta è infatti il momento in cui la nostra impronta ecologica supera la disponibilità offerta dal nostro pianeta: in altre parole raggiunto questo limite abbiamo consumato tutte le risorse che la Terra è in grado di generare e riassorbire per quell’anno.

A partire dal 30 luglio di quest’anno, quindi, stiamo consumando più di quanto ci potremmo permettere.

Questo parametro non è accettato universalmente. Come riconosciuto anche dagli stessi ideatori, Mathis Wackernagel e William Rees, il concetto di impronta ecologica ha diversi limiti: uno tra tutti, riduce tutti i valori presi in considerazione ad un unica unità misura che è la superficie terrestre, dando luogo a una rappresentazione potenzialmente non precisa di un sistema estremamente complesso e sfaccettato. Il vero problema, tuttavia, è che si tratta di un’imprecisione al ribasso.

Un aspetto molto significativo dell’Earth Overshoot Day sta nella scelta del giorno in cui celebrare questa data. Diversamente dalle tante altre giornate internazionali o mondiali di sensibilizzazione, la data in questione non è fissa ma calcolata ogni anno sulla base di diversi parametri. Pensate ad esempio che cinquanta anni fa, nel 1971, il giorno prescelto era il 10 dicembre.

Perché? la risposta è tanto banale quanto allarmante: ai tempi l’umanità arrivava a consumare tutte le risorse a disposizione quasi alla fine dell’anno, mentre oggi impieghiamo quasi cinque mesi in meno. Non si tratta di un cambio repentino. I grafici mostrano che, a parte piccole eccezioni, a partire dai primi rilevanti ogni anno la data è arretrata sempre più da quello che dovrebbe essere l’obiettivo, ovvero il 31 dicembre.

Il risultato di questo arretramento? Oggi l’umanità utilizza l’equivalente di un pianeta e mezzo, ovvero il nostro pianeta ha bisogno di un anno e sei mesi per rigenerare tutto ciò che noi usiamo in un anno. Di questo passo, entro il 2030 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per soddisfare la nostra fame di risorse.

C’è un solo problema: di pianeti ne abbiamo e ne avremo sempre e solo uno.

Per approfondire:

 

Catastrofi naturali e violenza sulle donne: una correlazione da spezzare

In occasione del 25 novembre proponiamo un articolo originariamente pubblicato sul sito di ActionAid, che offre una prospettiva diversa sul tema della violenza contro le donne.

 

Il caso di Haiti come esempio di un fenomeno sistematico.

Il 14 agosto scorso, quando un terremoto di magnitudine 7.2, ha colpito Haiti, le donne del Paese sapevano che, oltre alla devastazione portata dal sisma, avrebbero presto dovuto affrontare un’altra emergenza. Non si trattava della tempesta tropicale Grace che, a pochi giorni di distanza, si sarebbe abbattuta sulle aree terremotate, né degli scontri tra le gang della capitale, che negli ultimi mesi, soprattutto dopo l’uccisione del Presidente Jovenel Moïse, hanno costretto circa 19mila persone a scappare, e nemmeno della pandemia che continua a imperversare nel Paese.

Mentre piangevano la perdita dei propri cari e delle proprie case, dopo il sisma, molte donne hanno dovuto fare i conti con la consapevolezza di un nuovo pericolo: l’escalation di abusi sessuali previsto all’indomani di ogni disastro naturale. Un fenomeno devastante e sistematico, che molte avevano già subito nel 2010, quando un altro terremoto aveva colpito Haiti, mietendo oltre 200mila morti, distruggendo gran parte della capitale, Port-Au-Prince, e segnando profondamente la popolazione.

Si stima che, nelle sei settimane dopo il sisma del 2010, 10.813 persone abbiano subito abusi sessuali. La stragrande maggioranza di queste erano donne.

“Nel clima di caos e insicurezza degli enormi campi profughi, la violenza sessuale era aumentata moltissimo,” spiega ad ActionAid Marianne Toraasen, ricercatrice all’Università di Bergen, che ha studiato le conseguenze del sisma del 2010 sulla violenza di genere ad Haiti. “Per le donne, persino riuscire ad andare in bagno, la notte, era un rischio enorme.”

Il sisma dello scorso agosto ha dimostrato che, a undici anni di distanza, non molto è cambiato.

Nei campi profughi improvvisati, le sopravvissute non hanno potuto concedersi neanche un momento per affrontare il lutto di questa nuova catastrofe che ha travolto il Paese, registrando oltre 2,200 vittime e quasi 10mila feriti.  “Non ci sentiamo sicure,” ha raccontato ai microfoni di Agence France Press, Vesta Guerrier. Sopravvissuta al sisma di agosto, Guerrier aveva trovato un rifugio provvisorio in un campo profughi senza bagni accessibili, dove uomini e donne dormivano accalcati e dove la privacy rimaneva un’utopia. Per limitare i rischi nel campo, la comunità locale aveva cercato di riunire le donne e le bambine nella stessa area, istituendo squadre autogestite di addetti alla sicurezza improvvisati, per offrire una maggiore supervisione. Questo però non è bastato a trasformare il campo in uno spazio salvo.

“Ci può succedere di tutto,” ha spiegato Guerrier. “Soprattutto di notte. Chiunque può entrare nel campo.”

Haiti purtroppo non è un caso isolato. Diversi studi accademici hanno confermato un incremento del tasso di violenza di genere in seguito a una catastrofe. Secondo una ricerca della London School of Hygiene and Tropical Medicine, questo fenomeno è dovuto ad una serie di concause, tra cui la perdita delle abitazioni, delle relazioni famigliari e l’isolamento sociale improvviso causato dal disastro. Se, dopo aver perso la casa, molte donne sono costrette a dormire per strada o in campi profughi sovraffollati, spesso le bambine vengono separate dai genitori e ospitate da conoscenti, amici e parenti, nelle case che sopravvivono alla catastrofe e che diventano abitazioni provvisorie per molti adulti. Il sovraffollamento e la mancanza di spazi protetti per minori aumentano l’esposizione al rischio di abusi.

Benché la ricerca accademica abbia rivelato l’incremento del tasso di violenza dopo un disastro naturale, si scontra con la difficoltà di accedere a dati precisi durante un’emergenza.

Molto spesso, anche quando le sopravvissute riportano gli abusi subiti alle autorità, non vi è un seguito alla denuncia. Secondo uno studio della Loyola University, dopo che l’uragano Katrina aveva devastato New Orleans nel 2005, in diversi casi le denunce di violenza sessuale non erano state registrate ufficialmente, a causa della situazione emergenziale. Proprio per questo, lo studio sottolineava la necessità di includere linee guida per la prevenzione della violenza di genere nei protocolli di risposta alle emergenze naturali. Anche all’indomani di Katrina, un alto numero di abusi si era consumato nei campi allestiti per gli sfollati. Eppure, l’escalation dopo una catastrofe non riguarda solo gli abusi per mano di sconosciuti, ma anche la violenza domestica.

Secondo la ricerca, i disastri naturali amplificano alcuni degli elementi che tendono ad acuire la violenza, tra questi l’insicurezza finanziaria, il trauma e i problemi mentali. Si stima che, nel periodo successivo al sisma che aveva colpito la Nuova Zelanda nel 2011, nelle zone rurali del Paese, la violenza domestica sia aumentata del 40%.

Queste stesse dinamiche rendono le donne esponenzialmente più vulnerabili anche al cambiamento climatico. Esattamente come nel caso dei terremoti, secondo un recente rapporto dell’Unicef, i disastri climatici portano ad un aumento degli abusi sessuali e della violenza.

“La lotta al cambiamento climatico non è solo una lotta per mantenere il nostro pianeta vivibile,” hanno scritto diversi esperti in un articolo recentemente pubblicato sul blog del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, “Per molte donne, il cambiamento climatico può provocare la violenza.”

La violenza di genere rimane chiaramente un fenomeno umano. Le catastrofi vanno ad amplificare dinamiche già profondamente radicate all’interno della società. “Ad Haiti, la violenza contro le donne, specialmente quella sessuale, era un problema endemico anche prima del sisma del 2010. Con il terremoto vi è stata un’escalation” spiega la ricercatrice Marianne Toraasen. “Storicamente, lo stupro è stato usato come arma politica dai gruppi militari e paramilitari e dai gruppi criminali per controllare la popolazione.”

Ad Haiti, una donna su tre ha subìto violenza.  La società è segnata da una profonda disuguaglianza di genere e il sisma del 2010 aveva avuto conseguenze devastanti anche per il movimento per i diritti delle donne.

Nel terremoto erano rimaste uccise le leader Myriam Merlet, Magalie Marcelin e Anne Marie Coriolan, fondatrici di tre delle principali organizzazioni per la parità di genere nel Paese. “Tutte e tre avevano giocato un ruolo importantissimo nella ricostruzione del movimento dopo la dittatura di Duvalier,” racconta Toraasen. “Dopo la loro morte, le loro organizzazioni sono state ampliamente escluse dal processo decisionale post-terremoto.”

Le tre donne avevano avuto un ruolo chiave anche nella campagna che aveva finalmente portato alla criminalizzazione del reato di stupro nel 2005. Fino ad allora, lo stupro era considerato solo “un’offesa alla morale.” Secondo Toraasen, questo aveva rappresentato un grande passo avanti per le donne di Haiti. Purtroppo però gli ostacoli all’applicazione della legge rimangono enormi. Per le sopravvissute ottenere giustizia continua ad essere estremamente difficile, ancora oggi.

Il sistema legale è segnato da una serie di inefficienze strutturali dovute ad anni di instabilità, povertà e corruzione e da profondi pregiudizi di genere. Secondo gli esperti, questo non fa che alimentare il ciclo della violenza.

“L’impunità legittima chi è autore della violenza,” spiega Toraasen. “Se non ci sono conseguenze legali, perché smettere di infliggere gli abusi?”

Dal 2010 al 2019, la Norvegia aveva organizzato corsi di aggiornamento per formare la polizia di Haiti sulla violenza di genere. L’efficacia dell’iniziativa è stata però limitata dall’instabilità politica ed economica del Paese. Molti degli agenti formati non fanno nemmeno più parte delle forze dell’ordine. “È difficile dare seguito a questo di programmi con un’instabilità così pervasiva,” afferma Toraasen.

Non sono però solo le falle del sistema giudiziario a contribuire all’impunità. La povertà e la mancanza di indipendenza economica femminile rappresentano un altro giogo enorme. “In diversi casi in cui i giudici hanno sentenziato l’arresto del partner abusivo, le donne si sono opposte,” continua Toraasen. “Mettere gli uomini in prigione le avrebbe protette ma le avrebbe anche private del sostentamento economico. Diverse madri avevano paura di non riuscire a mantenere i figli da sole.”

Secondo Angeline Annesteus, country director di ActionAid Haiti, da anni le donne e le bambine pagano sulla propria pelle le conseguenze più devastanti delle varie crisi che si sono susseguite nel Paese.

Le donne soffrono le conseguenze più dure dell’instabilità politica, che ha subito un’ulteriore grave escalation dopo l’assassinio del presidente lo scorso luglio. Il Center for Analysis and Research for Human Rights, ha riportato che, da gennaio a settembre, sono stati registrati 628 rapimenti, la maggior parte di questi funzionali a finanziare i gruppi criminali. “Le donne rapite sono stuprate e abusate,” ha dichiarato ai microfoni di France24, Pascale Solages, un’attivista femminista. “Oltre al tema dei rapimenti, dobbiamo mettere al centro del dibattito l’impatto che questa situazione ha specificatamente sulle donne.”

La combinazione di crisi governative, disordini e catastrofi naturali non ha impedito la sopravvivenza del movimento per i diritti delle donne ad Haiti. Nell’ultimo anno, in molte sono scese in piazza più volte per chiedere misure concrete contro la violenza e l’insicurezza.

Secondo Toraasen, è difficile avere dati precisi sugli abusi perpetrati dopo il sisma di agosto. La situazione ad Haiti è estremamente difficile, con crisi ed emergenze diverse che continuano ad abbattersi sul Paese. “Ci vorrà ancora tempo,” spiega Toraasen. “Se non altro, il lavoro portato avanti dalle organizzazioni locali e internazionali degli ultimi anni ha in qualche modo contribuito al cambiamento culturale nella percezione della violenza, che per anni era rimasta un tabù.”

Articolo pubblicato su Actionaid.it

Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: riflettiamo sulla partecipazione!

Ormai trent’anni sono trascorsi dal riconoscimento che i bambini, le bambine, i e le adolescenti sono cittadin*, quindi soggetti aventi pienamente diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici: lo attesta la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia nel maggio 1991.

Ogni anno il 20 novembre, data in cui l’Assemblea generale ONU adottò la Convenzione nel 1989, si celebra la Giornata Mondiale dei diritti dei bambini. Indivisibile è il rapporto tra lo sviluppo inclusivo, equo e sostenibile promosso dall’Agenda 2030 e la realizzazione dei diritti delle persone di età minore: i suoi principi si dimostrano trasversali anche nella lettura dell’Agenda 2030, il cui obiettivo è quello di “non lasciare nessuno indietro”, di proteggere la vita mirando alla sostenibilità e di creare un mondo dove le generazioni presenti e future possano sentirsi protagonisti e beneficiari e dove i loro diritti siano garantiti a pieno titolo. 

Organizzata in 54 articoli, la Convenzione si basa su quattro principi fondamentali e trasversali: la non discriminazione (art. 2), il Superiore interesse (art. 3), il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino e dell’adolescente (art. 6), l’ascolto delle opinioni del minore (art. 12). Seppur fondamentale approfondirne contenuti e principi e rimandandovi alla fonte autorevole dell’Unicef per approfondire, oggi ci teniamo a promuovere qualche riflessione proprio sull’articolo 12 e sull’ inquadramento della child e youth participation 

L’articolo riconosce il diritto dei bambini e delle bambine, e degli e delle adolescenti a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni. E’ un articolo e un principio caro ad ActionAid Italia, che si impegna in Italia e nel mondo prioritariamente per garantire e monitorare che la partecipazione dei e delle cittadine sia garantita in tutti i processi politici e decisionali che li e le riguardano. E, in particolare, sia obbligatorio nell’ambito delle politiche educative e sociali, garantirlo per i e le cittadine minorenni.  

Urgente è provvedere in tal senso, in particolare dopo l’emergenza pandemica che ha esacerbato le diseguaglianze, sia sociali sia educative, in particolare tra i e le cittadine minorenni: dispersione scolastica, ritardi negli apprendimenti, ma anche aumento dei casi di violenza (online e fisiche), malessere sociale e relazionale. Il 2021 è iniziato tuttavia con qualche segnale di cambiamento: a livello europeo, è stata lanciata la prima strategia generale dell’UE sui diritti dei minori, nonché una proposta di raccomandazione del Consiglio che istituisce una garanzia europea per l’infanzia (Child guarantee), al fine di promuovere pari opportunità per i minori a rischio di povertà o di esclusione sociale: la protezione e la promozione dei diritti dei minori sono obiettivi fondamentali dell’attività dell’Unione europea, sia al suo interno che nel resto del mondo. Sono principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la tutela dei diritti dei minori nell’attuazione del diritto dell’Unione, costituiscono obiettivi trasversali a tutti i settori politici e rientrano nelle priorità fondamentali della Commissione europea. Perciò l’Unione deve promuovere e migliorare la partecipazione inclusiva e sistemica dei minori a livello locale, nazionale e dell’UE (1) 

In Italia, si è insediata una nuova Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Carla Garlatti, la quale, nell’esporre le linee programmatiche del proprio mandato di fronte alla Commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza ha ribadito il proprio impegno in tema di ascolto e partecipazione dei minorenni annunciando l’imminente convocazione della Consulta dei ragazzi e delle ragazze. In seguito a questo, ha lanciato “La scuola che vorrei” una consultazione pubblica tra gli e le studenti. I quesiti, sottoposti a chi ha un’età compresa tra i 14 e i 18 anni, in collaborazione con Skuola.net, sono stati elaborati dalla stessa Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Agia 

 

Ma cosa significa reale partecipazione dei e delle cittadine minorenni?  

Secondo il modello della child participation dell’accademica Laura Lundy (2), ripreso anche nel framework del Consiglio europeo (3), possiamo sicuramente dire che la partecipazione non è mera consultazione e non è un principio spot, ma deve necessariamente essere inserita all’interno di un processo. La partecipazione non è simbolica e non è casuale, altrimenti rischia di essere meramente decorativa. La partecipazione deve essere garantita attraverso l’affidabilità, l’ascolto individuale e collettivo, l’accompagnamento e deve richiede tempi e spazi dedicati. E’ quindi un processo che non si improvvisa.  

Il modello di Lundy concettualizza l’articolo 12 della CRC dell’ONU e richiama i responsabili di un’attività o di una politica educativa a considerare i seguenti 4 elementi di un processo partecipativo, distinti ma integrati tra loro e correlati da domande guida, a nostro avviso adattabili a ogni contesto di intervento, anche scolastico e educativo: 

  • LO SPAZIO: a ragazzi e ragazze deve essere garantito uno spazio sicuro e inclusivo per formare e esprimere le loro idee (L’opinione degli stessi è stata attivamente ricercata e promossa? Lo spazio era sicuro e accessibile per tutti e tutte? Sono state previste delle azioni per facilitare l’espressione consapevole di tutti e tutte?) 
  • LA VOCE: ragazzi e ragazze devono essere supportati e facilitati per esprimere la loro visione (Sono state fornite tutte le informazioni ai ragazzi e ragazze per formarsi un’idea? Sanno che non sono obbligati e obbligate a parlare? Sono state fornite delle opzioni diverse per esprimersi?) 
  • AUDIENCE: l’idea o il bisogno deve essere ascoltata realmente e con cura (E’ stato previsto un processo per far conoscere le idee e proposte di ragazzi e ragazze? Gli e le stesse sanno a chi verranno comunicate le loro idee? I soggetti o enti che ricevono i risultati del processo partecipativo hanno potere di decisione?) 
  • INFLUENZA: la visione, l’idea, il bisogno deve essere “agito” e deve concretamente realizzato nelle politiche o le azioni di un processo (Le idee e visioni dei ragazzi e ragazze sono state realmente considerate da chi ha il potere? Ci sono procedure che garantiscano che le loro idee e visioni siano seriamente prese in considerazione? Sono stati organizzati dei momenti di feedback a ragazzi e ragazze rispetto alle decisioni finali prese?) 

Il modello può essere perciò uno stimolo a interrogarci individualmente, come docente, come educatore o educatrice, così come collettivamente, come corpo docente, associazione o istituzione politica, se il processo partecipativo da noi sviluppato ha realmente garantito i 4 elementi fondamentali e si è mosso quindi verso una consultazione youth-led, non solo consultiva e collaborativa, ma realmente proposta, guidata, monitorata dai e dalle giovani in prima persona.  

 

  1. Strategia europea diritti dei minori https://famiglia.governo.it/media/2334/strategia-eu-sui-diritti-dei-minori.pdf 
  2.  https://childhub.org/en/child-protection-online-library/lundy-model-child-participation 
  3. Recommendation CM/Rec(2012)2 of the Committee of Ministers to member States on the participation of children and young people under the age of 18

“La pandemia degli adolescenti”: 16 mesi in un libro

Cosa abbiamo imparato dal lockdown? Ma, soprattutto, cosa hanno provato gli adolescenti in più di un anno chiusi in casa?

Sembra già passata un’infinità di tempo, ma da quell’8 marzo 2020 non sono ancora passati neanche due anni.

Nel corso di questi quasi due anni ci sono stati diversi lockdown e una lunga (lunghissima!) serie di DPCM che hanno scandito le nostre vite, rendendoci dei veri e propri esperti di tutta una serie di tematiche che, fino al 2019, non avremmo neanche immaginato che sarebbero diventati parte integrante della nostra quotidianità.

Nel libro “La pandemia degli adolescenti”, edito da Fondazione Media Literacy, si possono trovare testimonianze di studentesse e studenti che, da marzo 2020 a maggio 2021, hanno scritto sul mensile Zai.net, la rivista che da 22 anni dà voce agli adolescenti.

Il libro nasce dalla selezione di più di 700 testimonianze: le parole dei giovani reporter esprimono sofferenze e disagi profondi anche perché per 16 mesi si sono sentiti non considerati, silenziati, invisibili. Tutti ne parlano, Zai.net – come sempre – fa parlare loro.

Anche lo scatto in copertina è realizzato da un giovane reporter di Zai.net, che ha deciso di ritrarre la sorella durante i mesi di reclusione domestica e convivenza forzata.

“E ora che si ricomincia? – si chiede Lidia Gattini, segretario generale della Fondazione – Potrebbe essere una grande occasione per non accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma cambiare sul serio. La definizione del Ministro Bianchi di scuola affettuosa che, dopo anni di individualismo, faccia ritrovare a tutti la bellezza di vivere con gli altri, che includa i più fragili e divenga il motore di una crescita del Paese è affascinante e di grande stimolo per chi, come noi, lavora con le studentesse e gli studenti da oltre vent’anni, offrendo loro l’opportunità di esprimersi sui media”.

Proprio perché sappiamo quanto sia importante la possibilità di esprimersi, il ricavato del libro (ultimato nei giorni in cui i talebani prendevano Kabul) sarà devoluto alla Fondazione Pangea ONLUS, perché una corretta educazione ai media è innanzitutto una corretta educazione umana. Questa pubblicazione mette in luce le tante difficoltà che si sono trovati ad affrontare durante la pandemia e come questa abbia cambiato le loro abitudini, ma anche rivelato inaspettate risorse e capacità di elaborare richieste concrete per il futuro.

Potete ottenere il libro e maggiori informazioni qui

La Giornata Internazionale contro il Bullismo e Cyberbullismo a scuola

Il bullismo (e la sua variante online, cyberbullismo) all’interno delle scuole è un fenomeno che coinvolge sempre più bambini, bambine e adolescenti in tutto il mondo. Per questo motivo, dallo scorso anno, l’Unesco ha dichiarato il primo giovedì del mese di novembre la “Giornata Internazionale contro il bullismo e il cyberbullismo a scuola”. Scopo della celebrazione è riconoscere e promuovere la consapevolezza che la violenza legata alla scuola, in tutte le sue forme, è una violazione dei diritti dei bambini e delle bambine, e degli e delle adolescenti all’istruzione e alla salute e al benessere. 

Come avrete intuito, per il 2021, quel primo giovedì di novembre è proprio oggi. Il tema scelto quest’anno è in particolare il contrasto del cyberbullismo e delle forme di violenza online che coinvolgono i bambini e le bambine, ma anche gli e le adolescenti. L’argomento è estremamente attuale, poiché come ben sapete, negli ultimi due anni, a causa della pandemia, il tempo che le e gli studenti passano davanti a uno schermo, o comunque in un ambiente digitale, è aumentato considerevolmente (negli USA è addirittura raddoppiato!), e di conseguenza è aumentato il rischio di subire  questo genere di violenza.

Nonostante i dati globali non siano molti, quelli che ci sono mostrano come gli episodi di cyberbullismo siano aumentati in quasi tutti i paesi. In Europa, per esempio, il 44% dei bambini che avevano subìto cyberbullismo prima del Covid, hanno affermato che questo è aumentato durante i lockdown 

La violenza online, compreso il cyberbullismo, ha un effetto molto negativo sui risultati scolastici, sulla salute mentale e sulla qualità della vita delle e degli studenti. I bambini e le bambine che sono spesso vittime di bullismo hanno quasi tre volte più probabilità di essere lasciati indietro a scuola rispetto a quelli che non lo sono.  

E sebbene il fenomeno non sia confinato agli ambienti scolastici, il sistema educativo ha un ruolo e una responsabilità importante nel preparare le e gli studenti ad affrontare i temi della sicurezza online, della cittadinanza digitale e dell’uso consapevole della tecnologia, dando loro le conoscenze e le competenze per identificare la violenza online e proteggersi dalle sue diverse forme, sia che sia perpetrata da coetanei o da adulti. 

proprio dalla scuola proviene la buona pratica che vogliamo condividere in questa giornata così significativa. Si tratta del progetto MABASTA – Movimento AntiBullismo Animato da Studenti Adolescenti, ideato per contrastare ogni forma di bullismo, cyberbullismo, sopraffazione e mancanza di rispetto. L’idea di MABASTA è nata da Mirko Cazzato in collaborazione con i e le compagne di classe dell’Istituto Galilei-Costa-Scarambone di Lecce nel 2016, come antidoto al dilagare di episodi di bullismo e cyberbullismo in tutta Italia.  

I e le più attente si ricorderanno che abbiamo già parlato di Mirko e del progetto MABASTA in una puntata della nostra serie di video-podcast “Youth Talk” (la potete recuperare qui). Oggi, in occasione della Giornata Internazionale contro il Bullismo e Cyberbullismo a scuola, vi proponiamo una nuova intervista a Mirko.

Buona visione!