Questa vera e propria isola, secondo l’oceanografo americano Charles Moore, potrebbe contenere fino a 100 milioni di tonnellate di detriti. E il problema è che non è l’unica: ne esistono altre, più piccole ma simili, anche nell’Oceano Atlantico e in tutti gli oceani del mondo.
Che fare dunque? Certo, il primo passo dovrebbe essere cessare completamente di alimentare la crescita di questi mostri marini: purtroppo si stima che entro il 2040 la quantità di spazzatura di plastica che si riversa negli oceani ogni anno potrebbe quasi triplicare, raggiungendo le 29 milioni di tonnellate, se non agiamo tempestivamente e drasticamente.
Per il momento, tuttavia, c’è chi sta pensando anche a come rimuovere l'enorme quantità di rifiuti che già galleggiano nei mari e negli oceani di mezzo mondo. La plastica e altri materiali che non biodegradano, infatti, sono sensibili a un altro fenomeno di degradazione chiamato fotodegradazione. In altre parole, anche la plastica, col passare del tempo e soprattutto l’azione della luce, si disintegra in microscopiche particelle che si disperdono nell’acqua.
Vi ricorda la descrizione dei plancton? Infatti è proprio così! Le microparticelle di plastica (dette anche microplastiche) si confondono con i microscopici organismi marini che stanno alla base della catena alimentare nelle profondità oceaniche. In altre parole, una volta introdotte nell’alimentazione della fauna marina, le microplastiche sono destinate ad arrivare anche nei nostri piatti.
La raccolta ed eliminazione di queste isole plastiche è alla base del progetto The Ocean Cleanup. L’idea alla base del progetto è abbastanza semplice. Si tratta di una grande rete lunga 800 metri e profonda 3, che viene legata a dei galleggianti e trascinata da due navi a velocità ridotta. Una volta alla settimana circa, il “raccolto” viene scaricato sulle navi e lì viene diviso in base ai diversi materiali e inviato a terra per essere immesso nel percorso di riciclaggio.
In pratica è un po’ come pescare, solo che in questo caso si pesca la plastica! (guarda il video!)
Il progetto esiste dal 2013, fondato dal 18enne olandese Boyan Slat, e da allora ha visto numerose modifiche e revisioni del sistema di pescaggio. Dopo numerosi tentativi e fallimenti, finalmente nel 2019 si è arrivati a una formula che per il momento appare vincente. Secondo lo stesso Slat con una decina di barriere simili a quella attuale, ma più grandi, si potrebbero rimuovere la metà della plastica che galleggia tra la California e le Hawaii in cinque anni e il 90 per cento di tutta la plastica negli oceani entro il 2040.
Certo, come richiamato, la formula per ora appare vincente: tuttavia il progetto non è esente da critiche. Molti esperte ed esperte hanno segnalato come vi siano alcune criticità legate sia alle emissioni delle navi impiegate per il recupero della plastica (i cui motori utilizzano pur sempre carburante fossile), ma anche e soprattutto ai danni che il sistema “a trascinamento” causerebbe alla fauna marina.
In particolare, i ricercatori e le ricercatrici sono preoccupati/e dell’impatto che il sistema ideato da Ocean Cleanup possa avere sul cosiddetto “neuston”, ovvero quell’insieme di organismi marini che vive sulla superficie marina e poco sotto (meduse, molluschi, cavallucci marini e altri animali) che pare abbia un ruolo molto importante nell’ecologia del mare e degli oceani.
La situazione tuttavia è ancora sospesa, perché mancano informazioni sufficienti sul reale impatto negativo dell’iniziativa, e d'altra parte mancano rassicurazioni abbastanza convincenti da parte di Ocean Cleanup e soprattutto dalle aziende che la sostengono. Da molti lati, tuttavia, intervengono voci che al di là della questione “neuston” suggeriscono che il budget attuale del progetto potrebbe essere utilizzato per altre attività, tra cui, ad esempio, la prevenzione del rilascio delle plastiche attraverso i fiumi.
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